lunedì 30 settembre 2013

TOURNEDOS DI FILETTO DI TONNO


6 pezzi di filetto tonno – 6 fettine di lardo (affumicato) tagliato fine – peperoncino in polvere – 100 ml di olio – 2 spicchi d’aglio – 4 foglie di alloro - fior di sale 

Bardare il tonno con il lardo come fosse un tournedos. Marinare nell’olio con il peperoncino, l’aglio e l’alloro. In una padella anti aderente far cuocere il tonno un minuto da ogni lato su fuoco vivo. Salare con fleur de sel. 
Servire con una leggera salsa fatta con aglio, cipolla tritata, olio, peperoncino, un bouquet garni e far saltare dei peperoni a pezzetti finché non sono dorati e morbidi. Aggiungere dei pomodori scottati e portare a cottura. Passare nel mixer e versare sui tournedos. Servire con patate alle olive. 

venerdì 27 settembre 2013

PANINO CON PETTO DI POLLO, AVOCADO E WASABI


Ho trovato questa ricetta su una rivista francese il mese scorso, mi è sembrata ideale da abbinare al racconto su Las Vegas... non so perché. 

2 petti di pollo – 1 avocado maturo – 8 fette di pane in cassetta ai cereali – 1 barbabietola cotta al forno – una foglia di alga nori – 1 grande pugno di germogli – mezzo limone – una punta di cucchiano di wasabi – 1 cucchiaio di olio di oliva

Cuocere i petti di pollo in padella con un po’ d’olio. Tagliarli a fettine sottilissime. Tenere in caldo. Lavare i germogli. Tagliare l’avocado, schiacciarlo con una forchetta con limone, sale pepe e il wasabi. Tagliare a fettine sottilissime la folgia di alga. Tostare il pane. Spalmare con la crema di avocado, guarnire con fettine di pollo e dadini di barbabietola. Decorare con i germogli e l’alga. Coprire con l’altro toast e degustare tiepido. 

giovedì 26 settembre 2013

UNA PEPITA D'ORO A LAS VEGAS - IL GOLDEN NUGGET



Vivere a Las Vegas è stata un'esperienza affascinante, ho già raccontato della magnifica sensazione di atterrare e guidare nella notte attraverso la città fino al deserto (vedi nel blog: Atterraggio a Las Vegas) e della storia del gangster che l'ha fondata (vedi: Quattro Passi tra i Prati a Las Vegas), mentre ero lì lavoravo per una rivista e ho scritto una serie di articoli sugli alberghi e sulla storia di Las Vegas. Eccone uno qui sotto, adattato a questo luogo di storie e ricordi. 


Non sono stati dei pionieri qualsiasi a fondare Las Vegas. Come sempre questa città riesce a stupire e lo fa anche con le sue origini. Las Vegas significa “i prati” in spagnolo e perché ci fossero dei prati doveva esserci acqua in abbondanza. Nel deserto? Nel deserto. Fu un particolare evento geologico che, qualche migliaio di anni fa, provocò la nascita di sorgenti d’acqua pura in un’area molto arida, poco lontano da quello che è oggi lo Strip. Per secoli questi luoghi furono frequentati unicamente dagli indiani e solo verso l’inizio del XIX secolo gli esploratori cominciarono a segnalare la presenza dell’acqua su cartine e mappe. Attratto dalle risorse idriche del luogo un gruppo di pionieri scese da Salt Lake City per stabilirsi e creare una comunità. Erano missionari Mormoni. La città del gioco d’azzardo fondata da predicatori puritani, non male come inizio. Il luogo dove si stabilirono è oggi conosciuto come Las Vegas Fort, il forte di Las Vegas. I mormoni non rimasero a lungo, se ne andarono per un non ben specificato motivo, forse l’aria si stava facendo troppo peccaminosa per loro. 
Il forte di Las Vegas, dove tutto ebbe inizio, è poco lontano da quello che è stato per molti anni il fulcro della vita cittadina: Downtown. All’inizio, lasciava un po’ a desiderare l’aspetto del luogo nel quale si fermavano i pionieri e gli avventurieri per cambiare i cavalli, mangiare, dormire, riposarsi. Tutto si svolgeva lungo le polverose strade sterrate costeggiate da edifici di legno un po’ fatiscenti, in classico stile “Mezzogiorno di fuoco”. Rivendite di liquori, saloon, bordelli facevano da cornice a quello che era considerato il quartiere a luci rosse, noto a tutti come Block 16’s,sulla First Street. Il più famoso degli edifici ospitava l’“Arizona Club”, bar e casa di tolleranza di “classe”. Oggi non esiste più. Al suo posto il parcheggio del Binion’s Casinò, che sorge sulla Fremont Street, proprio di fronte a quello che è considerato la vecchia e nobile signora di Downtown, il Golden Nugget.
Il Golden Nugget è stato il primo edificio costruito allo scopo di ospitare unicamente il gioco d’azzardo. Tra i suoi proprietari anche - e chi altrimenti - “The Voice” Sinatra, re incontrastato di questa città che ha amato e dalla quale è stato corrisposto, e Steve Wynn, l’uomo che ha cambiato Vegas. Quella di Wynn è un’altra storia e la racconteremo la prossima volta, comunque sarà difficile dimenticarvi di lui quando girerete per la città.
Downtown, dopo il boom del parco giochi Strip, si era trovata in una fase di declino e tristezza. La sue luci, una volta le più brillanti della città erano almeno un po’ appannate, perché il grosso della clientela sceglieva i più facili e ridondanti divertimenti dello Strip. Così l’enorme insegna del Golden Nugget, alta più di 14 metri e larga altrettanto, se ne stava triste e sconsolata sulla Fremont a guardare il suo compare, altrettanto depresso, il Binion’s. Abbattuta quell’insegna, è stato dato un tetto, letteralmente, alla via e da qualche anno si è riusciti ad attirare i turisti che sono tornati di nuovo numerosi. Tutte le sere ci sono concerti dal vivo, dal gruppo cover dei Queen a piccole star della Country Music; artisti plastici che dipingono quadri in pochi minuti, giocolieri che roteano palline e clave di fuoco; localini senza tavoli che propongono dolci fritti dall’aspetto inquietante e, per le signore “anche l’occhio vuole la sua parte”, un paio di depilatissimi, mica tanto muscolosi, Chippendale’s che si fanno fotografare a torso nudo. Come in un rito catartico abbracciano ragazze più o meno giovani (con diritto di palpata…) che pagano profumatamente per l’onore della foto. Versione un po’ meno glamour, ma accettabile, e sempre decisamente kitch, del teatrino che si esibisce al Rio. Dulcis in fundo, lo spettacolo suoni, laser e luci. Fantasmagorico e divertente, vale la pena di mollare i tavoli da gioco per goderselo insieme alla folla eterogenea che popola questa via assurta a nuova vita.
L’ambiente di Downtown è sicuramente più ruspante rispetto a quello dello Strip, ma forse qui si ritrova un po’ di quell’America delle Fiere di paese, quelle che popolano l’estate rurale del paese profondo. Quell'anima un po' rude dei cowboy che alla fine di una giornata di lavoro a controllare la mandria o a lavorare i campi si diverte in quelli che un tempo erano i saloon. A Downtown Las Vegas si ha ancora la sensazione di essere in quell'America che ha fatto la storia nei film western, nonostante sia un mondo in transito tra sberluccichii, fantasia e un pizzico di concretezza.
E’ in quest’aria rilassata e meno formale che si presenta il Golden Nugget. Sempre piuttosto elegante, si presenta con le sue luci bianche che brillano sullo sfondo altrettanto candido dell’esterno e la luce prosegue all’interno. Finalmente da queste parti si riesce a capire se è giorno o notte, un bel vantaggio in una città dove nessuno vuole che tu abbia il senso del tempo. In bella vista all'entrata c’è anche la teca che racchiude la famosa pepita, quella che da il nome al locale, è enorme e sta a voi stabilire se è vera o falsa. Il buffet, fiore all’occhiello dei ristoranti dell’hotel, è accreditato tra i migliori e più riforniti della città. Le sale da gioco, molto affollate a qualsiasi ora, hanno i soffitti più bassi se paragonate a quelle dello Strip, dando così la sensazione di trovarsi in mezzo ad un’allegra confusione. Tanti tavoli, ma anche tante slot machines. Gli amanti del genere “ciliegie, prugne e bar” non resteranno delusi.
La piscina è assolutamente imperdibile, anche se le dimensioni sono lontane da quelle formato gigante del Bellagio o del Mandalay Bay. In mezzo all’essenziale vegetazione molti lettini, alcuni anche nell’acqua, e al centro una vasca nella quale nuotano squali di dimensioni ragguardevoli. Come? Certo che è a prova di bomba. Nell’acquario fanno compagnia agli squali, rocce, alghe e varie specie di pesci. Visto che lo spazio è ridotto all’osso il sun deck si snoda su tre piani, per ospitare più amanti della tintarella, e all’ultimo troviamo l’attrazione. Lo scivolo. Uno scivolo particolare, si tratta di un tubo trasparente (attenzione se soffrite di claustrofobia!), perfettamente stagno, che passa dentro al tank degli squali dando la sensazione di nuotare con loro. Un brivido perfettamente controllato, come quasi niente a Las Vegas. 

sabato 21 settembre 2013

PLUM CAKE AL LIMONE SENZA GLUTINE - RICETTA PER CELIACI


Esistono bambini che tornano a scuola e sono celiaci, ecco un dolce che fa per loro e che possono condividere con gli amichetti senza problemi. 

180 gr di amido di mais – 30 gr di farina di soya – 1 sacchetto di lievito senza glutine – 75 gr di zucchero – 80gr di burro – 3 uova – 1 limone biologico – stecca di vaniglia o essenza 


Mettere l’amido, il lievito, lo zucchero e la farina in una ciotola grande. Lavare il limone grattugiare la scorza e spremere il succo. Far fondere il burro. Aggiungerlo insieme alle uova, al succo e scorza di limone, all’essenza di vaniglia alla farina e mescolare fino ad ottenere una pasta liscia ed omogenea. Versare la pasta in un forma da plum cake imburrata e cuocere per 30 minuti a 120 gradi. Se il dolce dovesse colorarsi troppo rapidamente coprirlo con un foglio di alluminio. Servire freddo. 

giovedì 19 settembre 2013

TORTA AL CIOCCOLATO DELIZIOSA


Una bomba caloria, che solo dei bambini che devono crescere e che fanno attività fisica giocando possono smaltire. Ideale per consolare gli allievi più tristi per l'anno scolastico che ricomincia. Comunque, torta perfetta anche per adulti, soprattutto dopo una dura giornata di lavoro. Se vogliamo renderla ancora più golosa e, perché no, calorica, servirla con panna montata e un bicchierino di whisky o rhum accanto. Questi ultimi poco adatti ai bambini ai quali consiglio di offrire un bicchiere di latte o una frullato alla banana. 

400 g di cioccolato fondente – 400 g di burro – 400 g di zucchero – 10 uova – 1 cucchiaio di farina –
 
Vecchia, utilissima foto, ho sempre la macchina fotografica rotta 
Far fondere il cioccolato con il burro. Unire lo zucchero. Fuori dal fuoco aggiungere le uova una ad una e infine il cucchiaio di farina. Versare in una grande teglia imburrata e ricoperta di carta forno. Mettere in fono a 180 gradi per 16 minuti.  
per sei persone 

mercoledì 18 settembre 2013

PRIMI GIORNI DI SCUOLA

Disegno Regalo di Anna alle Elementari 
In questi giorni di rientro a scuola per tanti bambini e ragazzi sono stata presa dalla nostalgia e dal ricordo dei miei, di primi giorni di scuola. 

Il primo giorno di asilo non lo ricordo bene, avevo tre anni ed ero a Tiberiade. Però, ricordo perfettamente come ero vestita perché uno scatto galeotto mi ha ritratta mentre uscivo di casa. Avevo una salopette di jeans arancione e una maglietta blu, i capelli cortissimi e un paio di scarpe blu con gli occhi. Le scarpe con gli occhi, un grande classico di tutti i bambini di molte generazioni. Le adoravo. Erano le uniche che non abbandonavo sui muretti o in mezzo alla polvere, sono sempre stata una selvaggia e ancora oggi amo camminare a piedi nudi. Di solito le scarpe che abbandonavo, le dimenticavo anche, sparivano in un battibaleno. Mia madre era disperata. Quel giorno deve aver pensato che per evitare spiacevoli inconvenienti sarebbe stato meglio farmi indossare le scarpe che io non avrei abbandonato mai, a costo della vita. A testimoniare quel primo anno di asilo è rimasto un album da disegno, che si apre da destra a sinistra e non da sinistra a destra come i nostri. Già, da quelle parti si scrive al contrario rispetto a noi. A quei tempi tutti pensavano fossi un maschietto, visto le tenute con cui mi vestiva mia mamma. Aveva la spiacevole tendenza, o l'idea pratica, che pantaloni e salopette fossero più adatti per giocare. L'aggravante dei capelli corti mi ha rovinato l'infanzia, ho sempre detestato che dicessero accarezzandomi la testa rapata "Ma che bel bambino". Io rispondevo regolarmente: sono una bambina, accidenti. Anche al primo giorno di asilo mi hanno detto che bel bambino. Ho sempre detestato i capelli corti, e il fatto di sembrare un maschio. Ho recuperato col tempo, raramente ho tagliato i capelli cortissimi dopo quegli anni. In effetti, però, c'è stato un momento della mia vita in cui ho sfoggiato un taglio a spazzola. Sono pentita ancora oggi.
Il primo giorno di scuola elementare mi trovavo a Roma, e ricordo perfettamente la tenuta che avevo. Un bel grembiule bianco, un fiocco azzurro e sotto la mia solita salopette, questa volta di jeans. I capelli erano un po' più lunghi, e avrebbero comunque potuto scambiarmi per un maschio, ma nessuno lo ha fatto. I maschi avevano il grembiule blu e il fiocco bianco. Ho amato subito la mia maestra. Una signora di età indefinita, con un taglio di capelli corto ma morbido e gli occhiali. Ricordo ancora il suo nome, la Signora Racioppi. Da lei ho imparato a leggere e scrivere, e ho imparato cos'era un fioretto. Ogni fioretto che facevamo, ogni buona azione che compivamo doveva essere documentata sul quaderno in un'apposita pagina col disegno di un fiore piccolino, centro rosso, petali gialli. La Signora Racioppi è andata in pensione quando ho cominciato la seconda elementare, il primo giorno di scuola sono rimasta delusa, al suo posto c'era una signorina antipatica e secca. L'avrei definita una vera virago, se ai tempi avessi saputo cos'era una virago. L'unica soddisfazione di quel primo giorno è stata l'avere i capelli abbastanza lunghi per fare due miseri codini decorati con due nastrini arancioni. La signorina secca era una supplente, il vero maestro è arrivato dopo. Suonava la chitarra ed era un po' cialtrone. Eravamo pazzi di lui.
Ho avuto anche un primo giorno di terza elementare, perché ho cambiato paese e scuola. Ricordo il mio stupore di non avere una cartella, perché i libri che non erano necessari per fare i compiti rimanevano sotto al banco e non portavamo il grembiule. La mia nuova compagna di banco si chiamava Anna, sarebbe anche diventata la mia amica del cuore.
Insieme abbiamo cominciato le medie, che in Belgio, paese dove vivevamo, erano ancora elementari. Il primo vero giorno di medie avevo i capelli che mi arrivavano fino alle spalle e mi sentivo molto adulta. Indossavo un paio di jeans di Fiorucci e una camicia di jeans, non so come mai, ma non avevo perso l'abitudine di vestirmi da maschio il primo giorno di scuola. I capelli mi arrivavano sotto alle scapole e nessuno, nonostante la tenuta, mi prendeva più per un maschio. Anna non c'era, era ripartita per "non mi ricordo più dove", sono stata costretta a trovarmi un'altra amica del cuore, ma nessuna era come lei. Siamo amiche ancora oggi.
Il primo giorno di liceo (Scientifico) mi sono di nuovo trovata in un altra nazione, che in realtà era la mia, in un mondo completamente diverso da quello in cui ero vissuta fino a poco tempo prima. Uno shock culturale quasi insormontabile. Avevo i capelli tagliati a caschetto, con una frangia che mi copriva gli occhi ed indossavo un paio di jeans rossi di velluto a coste con una camicia bianca e un golfino grigio. Avevo anche le scarpe rosse, la mia compagna di banco era una ragazza carina e tranquilla, la ragazza del banco davanti aveva denti davanti cariati e i capelli unti. C'erano un  paio di ragazzi che mi erano parsi "niente male" e qualcuno veramente simpatico. Sono stati i miei compagni di classe per poco. Mi sono di nuovo trasferita e ho cambiato anche indirizzo scolastico, sono passata al Liceo Linguistico, previo esame di ammissione per controllare che non fossi del tutto ignorante. Anche lì ho avuto il mio bravo primo giorno, nuovi compagni di classe e nuovi insegnanti. Portavo i capelli nel solito caschetto che era diventato il mio marchio di fabbrica e il solito paio di jeans, questa volta bianchi.
Il primo giorno di Università faceva freddissimo, era nebbiosissimo e mi trovavo a Milano. Avevo fatto un esame di ammissione per la Scuola Interpreti e Traduttori ed ero stata, felicemente, ammessa al terzo anno. Il professore che ci ha accolti era un signore magro, con un completo marrone e una pelata inciepiente. Pare fosse un grande traduttore, ma non riesco a ricordarne il nome, non so come mai. Ci ha salutati in italiano, specificando che sarebbe stata l'unica volta e poi ha detto "For breeeekkking di ais..(ha sorriso).... dictation" (per rompere il ghiaccio, dettato) . Ha pronunciato le parole con un pesantissimo accento italiano e come se dicesse "for break in the eyes" (per rotto negli occhi, traduzione letterale piuttosto maccheronica come la sua pronuncia). Ci siamo guardati tra di noi e siamo rimasti immobili. Non sapevamo cosa fare, se guardarlo negli occhi o se rompergli un occhio. Lui ha ripetuto e allora noi abbiamo visto la luce, ridacchiavamo mentre prendevamo un foglio di carta e la penna. Il mio vicino era un ragazzo simpatico con un giaccone color verde militare e gli occhiali dalla montatura nera, non ricordo se avesse già i capelli tagliati come un punk oppure se fosse ancora pettinato come un bravo ragazzo timorato. La mia vicina aveva una chioma fluente, abbondante e bellissima,  e poco distante un'altra ragazza aveva i capelli lisci e rosso tiziano. Io sfoggiavo un paio di jeans e un maglioncino giallo senape, i capelli in una della varianti del caschetto. Quello strano gruppetto è stata la mia famiglia nel corso dei tre anni deliranti in una scuola difficile e prosciugante. Il secondo primo giorno di Università è stato in realtà il terzo anno della Facoltà di Lingue e Letterature straniere, a cui ero stata ammessa per avere terminato la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori con profitto e successo. Prima lezione, Letteratura Inglese III, Professor Buffoni. Un personaggio amante delal letteratura bucolica inglese del XVIII secolo. Un osso durissimo agli esami, giovane poeta esigentissimo soprattutto con le sue allieve, quindi con la maggioranza dei suoi studenti. Quel primo giorno indossavo il solito paio di jeans, non quello della prima media, ma ovviamente un altro comprato qualche tempo prima. E mi è sorto il dubbio che forse quella dei jeans è stata la mia divisa e il mio feticcio per tutti i primi giorni di scuola della mia vita.
Ricordo perfettamente la prima volta che sono arriva in redazione nel giornale per cui avrei collaborato. Avevo il colloquio con il direttore. Non indossavo i jeans, bensì un vestitino nero, una giacca color ruggine e un paio di scarpe con il mezzo tacco. Però, il primo giorno di lavoro avevo un paio di jeans, una camicia bianca e una giacca nera. Le scarpe col tacco e i capelli lunghi e ricci. Nessuno mi ha preso per un maschio. E in un ambiente pieno di uomini come erano le redazioni dei giornali un tempo, quello non era certo un vantaggio.

lunedì 16 settembre 2013

GNOCCHETTI DI PATATE CON CURRY E PREZZEMOLO

Erano le 12,30 e si sono presentati un paio di amici a portare un quadro che avevo ordinato, li ho invitati a pranzo e, orrore, mi sono accorta che il frigo era mezzo vuoto. Sarei dovuta andare a fare la spesa quel pomeriggio, in effetti. Nel mio frigo e nella mia dispensa si possono sempre trovare una serie  di ingredienti salvacuoca, anche questa volta mi è andata bene. C'erano degli gnocchetti pronti, di una qualità sopraffina, ammetto, messi sotto vuoto, un po' di burro e del prezzemolo. Ho aperto la dispensa, et voilà è nato questo piattino. C'erano anche dei pomodori e delle cipolle, ne ho fatto un'insalata con capperi e olive. Mi raccomando, come tutte le ricette semplici gli ingredienti devono essere di gran qualità. Soprattutto il curry. 

750 g di gnocchi di patate (o anche Chicche della Nonna) - 50 g di burro - tre cucchiaini di curry - quattro cucchiai di prezzemolo fresco tritato - sale

Portare ad ebollizione abbondante acqua, salare. In una zuppiera mettere il burro tagliato a tocchetti piccoli, spolverare con il curry e il prezzemolo, salare leggermente. Quando i gnocchi cominciano a venire a galla tirarli via con la schiumarola e metterli nella zuppiera, al principio scolare bene poi lasciare che un po' di acqua di cottura transiti nella zuppiera. Mescolare bene. Nella mia idea di ricetta, gli gnocchetti dovrebbero profumare di curry e sapere di prezzemolo, ma se preferite il contrario ben venga.
per quattro persone 

sabato 14 settembre 2013

PROBLEMA TECNICO


Mi si è rotto il cavetto per scaricare le foto dalla macchina fotografica, quindi per questa settimana (e forse un po' di più) non ci saranno fotografie dei piatti o del cibo nel blog. Ovviamente ci saranno racconti e ricette, magari con immagini non perfettamente correlate.

VI CHIEDO SCUSA, GRAZIE PER LA COMPRENSIONE


e vi lascio con una foto per farvi sognare.


venerdì 13 settembre 2013

PETTO DI POLLO IN COTTURA QUASI SOTTOVUOTO CON BURRO ALL'ERBA LUISA

Questa settimana nessun tema accompagnerà il racconto, saranno ricette prese qua e là tanto per gustare nuovi piatti. 
E' molto di moda la cottura sottovuoto, ho trovato questo metodo casalingo su una rivista francese. Si può ricreare questo sistema di cottura con i sacchetti per congelare. Semplicemente. I  petti di pollo così cucinati risultano succulenti, saporiti e molto profumati. 

un petto di pollo tagliato in due fette ad 150 g, un centimetro di spessore - mezzo limone - 50 g di burro - due rametti piccoli di erba Luisa

per cucinare: tre sacchetti per congelazione - una grande ciotola di metallo o plastica, profonda più che larga - un litro/due di acqua

Mettere i petti di pollo, salati leggerissimamente, in due sacchetti diversi, premere bene per togliere tutta l'aria e poi chiudere con il laccetto incluso nella confezione. In un terzo sacchetto mettere il burro con i rametti di erba Luisa tritata, il succo del limone, sale pepe, togliere l'aria e chiudere come i sacchetti precedenti. Portare ad ebollizione un paio di litri di acqua. Mettere i tre sacchetti nel contenitore con la parte chiusa dal laccetto verso l'alto, versare l'acqua fino a coprire i petti di pollo, la quantità dipende dalla profondità del contenitore. Lasciar cuocere per sei/sette minuti, buttare l'acqua. Aprire il sacchetto con i petti pollo, metterli sul piatto di portata dopo averli asciugati con carta assorbente e irrorare con il burro sciolto che si trova nell'altro sacchetto.
per due persone

mercoledì 11 settembre 2013

NEW YORK, LA LIBERTA' OLTRE IL SILENZIO


La Freedom Tower


Quella mattina di settembre ero a San Paolo del Brasile, mi sono svegliata molto presto perché dovevo andare all'ambulatorio dell'aeroporto di Congonhas per farmi inoculare il vaccino contro la frebbre gialla. Inusuale andare in un aeroporto per un vaccino, di solito si va in ospedale. Un luogo profetico. Sono arrivata e la coda per accedere allo studio medico era piuttosto lunga. Alla fine sono uscita con il mio certificato, ero vaccinata contro la febbre gialla per dieci anni. Sul timbro la data del giorno, 11 settembre 2001. Sono entrata che la febbre gialla poteva devastarmi e il mondo aveva un aspetto, sono uscita immune e il mondo era cambiato. Quando sono salita sul taxi il primo aereo si era schiantato sulla prima torre già da un po', il taxista mi aveva ragguagliata quando gli avevo chiesto cosa stesse succedendo. Raccontava di un aereo che era entrato dentro ad una delle Twin Towers, come un coltello caldo dentro ad un panetto di burro. Io ero scettica, mi sembrava storia alla Orson Wells, quella di quando ha annunciato lo sbarco dei marziani negli Stati Uniti. Poi, mentre l'auto procedeva nel traffico ho scoperto che la realtà può essere più irreale della fantasia. Eppure così reale. Mentre il taxista riassumeva l'accaduto il secondo aereo aveva effettuato la sua macabra manovra, lasciandoci attoniti. Lo speaker alla radio era agitato, probabilmente seguiva le immagini su uno schermo televisivo e accavallava le notizie in una cacofonia di parole inutili. Attraversare San Paolo nel suo traffico lento, caotico, disordinato, è un'esperienza mistica, un atto di pazienza. Quella mattina era ancora più caotico e disordinato del solito, ma non ce ne siamo accorti. Entrambi ascoltavamo le notizie senza fiatare, persi nelle parole che si accavallavano concitate. Ad un certo punto un urlo, terribile. Era semplicemente un no, ma che aveva poco di umano e ci ha fatto accapponare la pelle. La prima torre aveva cominciato a disintegrarsi, sotto il calore delle fiamme e dalla potenza delle esplosioni, la struttura aveva ceduto. Quando sono scesa la seconda torre era ancora in piedi. Il tempo di arrivare in casa e accendere il televisore, bastava premere un tasto qualsiasi e l'orrore era in onda. In quello stesso istante la seconda torre si ripiegava su se stessa e lasciava un cumulo di polvere e detriti. Un cumulo di polvere e detriti che al suo interno racchiudeva vite umane. Il resto del giorno l'ho trascorso insieme alle mie amiche, davanti al televisore assistendo alla proiezione del disastro in un infinita replica, un loop continuo che, nella sue ripetizioni, non ha reso meno orribile quello che era accaduto la mattina. Le torri sono risorte e crollate centinaia di volte nel corso della giornata e ogni volta il fiato rimaneva sospeso mentre la prima cadeva, ci sorprendevamo a pensare che forse non era vero. Irrazionalmente abbiamo sperato che la seconda restasse in piedi. Sono seguite immagini di polvere, cenere, panico, dolore, funerali.
L'anno dopo ero davanti alla voragine, enorme. Ero davanti alla croce di ferro che era stata trovata durante gli scavi di bonifica dell'area. La croce non era opera dell'uomo, era una pezzo di struttura che forse non per caso si era rotta e si era presentata ai soccorritori nel momento più basso della loro ricerca, nel momento più drammatico e difficile.
Più di undici anni dopo i fatti, una mattina di primavera inoltrata eravamo a New York e per una serie di felici coincidenze siamo stati invitati a visitare il cantiere della Freedom Tower. Quel giorno, una data simbolica per noi italiani, che per una fortuita concomitanza ha nella sua definizione la parola che dà il nome alla torre dove ci trovavamo, Libertà. Una serie di concidenze mi ha guidata in questi anni, il vaccino in un aeroporto, l'essere a New York poco dopo il ritrovamento della croce, e trovarmi ancora in città nel giorno intitolato alla libertà in Italia. Il nuovo grattacielo, alto 1776 piedi, che sta per essere ultimato dove sorgevano le Twin Towers era davanti a noi, maestoso. Quella mattina siamo stati ospiti del direttore dei lavori, lo stesso uomo che ha diretto il lavoro di bonifica, lo stesso che era a poche centinaia di metri dalle Torri quando il primo aereo è entrato nella prima torre. Quel giorno di settembre era ad un appuntamento di lavoro, non sapeva che avrebbe diretto il lavori di qualcosa che era in piedi, discuteva di altro, quando ha sentito un botto, un terremoto. E' la stessa persona che è stata chiamata dagli operai al ritrovamento della croce. Ci ha raccontato cosa era successo, come era successo. Stavano rimuovendo la terra, con attenzione, alla ricerca di ogni brandello di ricordo, di un segnale, di qualcosa, nel fetore delle settimane successive al disastro. La televisione non ha mai trasmesso l'odore del fuoco che brucia la struttura, delle esplosioni, la puzza di cenere, il tanfo di morte di quel giorno. Fortunatamente non è mai stata in grado di mandare in onda quello che i lavoratori, la gente, tutti sentivano intorno a Ground Zero. Loro, gli operai, il direttore sentivano, il tanfo era parte di loro. E piangevano. Ad ogni badile infilato a terra, a ogni centimetro setacciato, a ogni scampolo di metallo, piangevano. Ogni tanto smettevano. Quel giorno hanno chiamato il direttore dei lavori "venga a vedere cosa abbiamo trovato". In fondo ad un buco, il cielo nuvoloso sopra, la terra, la polvere, la cenere, l'odore intorno, c'era una croce. Nell'istante in cui il capo è arrivato, dal cielo è uscita una lama di luce. La croce era illuminata da un raggio di sole, debole ma potente. Lentamente l'hanno estratta, ha resististo, ma poi è stata esposta in cima al cantiere, là dove più o meno qualche tempo prima c'erano stati gli ingressi delle torri. Il direttore ci ha detto che raramente raccontava questi episodi. L'emozione del privilegio della sua confidenza ci ha resi orgogliosi. Mentre raccontava la quotidianità e l'eccezionalità del suo cantiere della Freedom Tower, più vicini al cielo che alla terra, sotto di noi il Memorial delle Twin Towers. C'era silenzio. Come quel giorno di settembre. Intorno a noi i lavori, gli operai che andavano e venivano, il cemento nudo, i vetri appena messi ancora sporchi, eppure c'era silenzio. L'uomo che avevamo davanti aveva visto questi luoghi prima che i mondo cambiasse. Dopo che il mondo era cambiato. Aveva toccato con le  mani quello che era stato il più grande dolore dell'America, ogni giorno, per quasi dodici anni. Era lì e raccontava, condivideva con noi quell'esperienza. Storie bellissime e terribili. Dopo, ci ha portato sul tetto, a 1776 piedi da terra, un luogo dove pochi metteranno piede dopo l'inaugurazione. E poi ancora più su, sulla piattaforma che una settimana dopo sarebbe servita a fissare l'apice della torre, l'antenna radio, insomma il culmine contrario alla voragine dell'undici settembre. Un luogo, la piattaforma, che non esiste già più, rimosso dopo aver fatto il suo uso. Sotto di noi New York, gli elicotteri che sfrecciano ogni giorno sull'isola, più avanti Ellis Island, i grattacieli, il ponte di Brooklin, quello di Verrazzano, case a perdita d'occhio fino ai quartieri più lontani, fino alle altre isole, alla terra ferma, all'oceano. Noi eravamo lì, a sovrastare quella che era stata una voragine enorme, una voragine che ha cambiato il nostro modo di vedere il mondo, il nostro modo di viaggiare, le nostre piccole, insignificanti abitudini. Da lì sembrava tutto più pulito, silenzioso, da lì nessun rumore solo il vento fresco che ci accarezzava la faccia. La giornata era bellissima, il cielo terso. Il direttore dei lavori ha detto guardando più sotto "Sono felice, tra poco la inauguriamo. Siamo sopra qualcosa che non dimenticheremo mai". Gli abbiamo sorriso. Dopo una lunga pausa ha mormorato, con un filo di voce molto poco consono ad un uomo della sua stazza, "Anche da qui, oggi, continuo a sentire l'odore."

Il Cantiere dal Centociquesimo Piano

Il Memoriale dell'Undici Settembre 

New York dal Tetto della Freedom Tower 
La Statua della Libertà dal Tetto  Freedom Tower 

venerdì 6 settembre 2013

GLASSA PER ANATRA ALLA GRIGLIA

Mescolare insieme il succo di mezza arancia, mezzo cucchiaino di sale e un po' di pepe, sbattere bene finché il sale non è sciolto. Aggiungere un cucchiaio di miele (come sapete la mia ossessione è quello di lavanda), quattro cucchiai di olio ed emulsionare. Aggiungere la scorzetta grattugiata di un quarto di arancia e dell'erba cipollina tritata. Emulsionare bene e spennellare sul petto d'anatra cinque minuti prima di togliere dal fuoco. Servire insieme all'anatra, ogni commensale aggiungerà la salsina a proprio piacimento sul petto d'anatra.

giovedì 5 settembre 2013

PETTO D'ANATRA ALLA GRIGLIA - ISTRUZIONI DI COTTURA


Ultimi sprazzi d'estate, ultime grigliate. Ci sono i funghi, i fichi e l'uva, e si ha voglia di cose un po' più corpose. Ecco come fare il petto d'anatra alla griglia, con tutti i trucchetti del caso. Domani la glassa per finire la cottura e per servire questa delizia. 

due petti d'anatra da mezzo chilo ciascuno, con la pelle e senza nessun tipo di incisione dalla parte del grasso - sale - pepe - carbonella 


Preparare la carbonella come al solito, quando è ancora bella forte mettere il petto d'anatra dal lato della pelle con la griglia a metà altezza. Vedrete che non appena il grasso comincia a sciogliersi si formeranno delle fiamme, tenere dell'acqua a portata di mano e spruzzare le braci per attenuarle. Fare quest'ultima operazione durante tutta la cottura se fosse necessario. Ci sarà parecchio fumo, non vi preoccupate: è normale. Tenere sul fuoco cinque minuti, quindi girare dal lato della carne per un minuto, salare pepare e girare di nuovo, tenere sul fuoco dal lato della pelle per altri cinque minuti. Girare dal lato della carne, salare e pepare. Cuocere ancora cinque minuti. A questo punto controllare la cottura praticando un taglietto nella carne, se è ancora troppo al sangue proseguire la cottura per altri cinque minuti al massimo. Comunque, negli ultimi minuti di cottura spennellare la glassa sul lato della carne e terminare la cottura. 
I tempi sono indicativi, dipende sempre dal calore delle braci, dalla vicinanza, e dallo spessore della carne. 
per quattro/sei persone 

domenica 1 settembre 2013

(FRENCH) TOAST CON CREMA AL MASCARPONE E MORE

Questa è una versione dei famosi French Toast che ho trovato su una rivista americana e che ho fatto mia, rivedendo alcuni dettagli. E' un modo fantastico di riciclare pane vecchio soprattutto Pan Brioche, Kranz, Panettone, Pandoro, e tutti quei dolci lievitati un po'... panosi. La condizione per questo dolce è senz'altro un pane dolce, non vale il pane che mangiamo a tavola. Il Mascarpone è un classico della nostra tavola molto amato negli USA, e le more danno un delizioso, anche al palato, tocco di blu che giustifica il  tema della settimana.

otto fette di pan brioche - mezzo chilo circa di more - due uova - 125 ml di latte -  un pizzico abbondante di sale - burro
per la crema: 125 g di mascarpone - un cucchiaio di zucchero - un cucchiaino di succo di limone - mezzo cucchiaino di estratto di vaniglia
per lo sciroppo: 125 ml di sciroppo d'acero di buona qualità - un cucchiaino di acqua di fiori d'arancio - qualche goccia di estratto di vaniglia

Lavare e pulire le more. Asciugarle. Tenere da parte.
per lo sciroppo: scaldare lo sciroppo d'acero sul fuoco bassissimo, unire l'acqua di fiori d'arancio e la vaniglia, mescolare bene.
Per la crema mescolare tutti gli ingredienti, spalmare sulle fette di brioche e coprire con le altre per ottenere quattro toast. Lavorare le uova con il latte e il sale, metterli in una teglia o un piatto fondo immergere i toast per qualche secondo, girare e ripetere. Far scolare bene l'eccesso di pastella e mettere in una padella dove si è fatto sciogliere un po' di burro. Cuocere per tre minuti per lato. Servire subito  nei piatti individuali con lo sciroppo e le more.
per quattro persone