Oggi anziché il solito racconto di viaggio o ricordo d'infanzia, di vita vera e vissuta vi presento uno dei miei racconti usciti dalla mia fantasia. Nasce qualche anno fa in subito dopo una nevicata a Milano, la città era perfetta, romantica e silenziosa. Ho immaginato i miei due protagonisti in quella mattina, rara e insolita. Il ristorante citato non esiste più, ma era un luogo che mi piaceva molto, rustico ed elegante, altri hanno preso il suo posto e i miei protagonisti potrebbero trovarsi davanti ad uno di questi.
Silenzio. È insolito, il silenzio.
Nessun tram che sferraglia, nessuna sirena che urla o un clacson che protesta nervoso, nemmeno il brusìo ossessivo del traffico.
Solo una rumorosa quiete lo aveva
svegliato e lui era rimasto lì, nel dormiveglia, a chiedersi perché questa
mattina Milano sembrasse dormire ancora. Bip-biiip-bip-bip. Le sette meno un
quarto, Lucio aveva spento la sveglia che continuava a bippare antipatica.
Piano, piano aveva portato la gamba destra fuori dalle lenzuola. Freddo. Si era
girato sul fianco, si era messo seduto sul bordo del materasso ed era rimasto
immobile, così, per alcuni secondi a saggiare lo stato di risveglio. Avrebbe
avuto voglia di sdraiarsi di nuovo e tornare a dormire, ma in quel modo non
avrebbe scoperto che cosa era successo alla città quella mattina. Allora,
appoggiando le mani al materasso si era alzato e aveva tirato su la tapparella
sulla via, dove gli alberi avevano i rami nudi e scuri già da un mese. Una
meringa. Attraverso il vetro, la via sembrava un’enorme torta di panna con
pezzetti di meringa e stecche di cioccolato come decorazione. Neve. Silenzio.
Bello, si era detto Lucio con un sorriso
sghembo.
“Quando smetterà di nevicare sarà
acqua, fanghiglia, scarpe bagnate, poltiglia grigia, pozzanghere profonde come
un mare, però oggi è bello”, pensava mentre si
faceva la barba in bagno e guardava la sua faccia allo specchio. Il volto
scavato, il naso affilato, le orecchie leggermente a sventola. Tutto sommato
niente male, si era complimentato mentre spalmava il dopobarba.
La neve continuava a cadere in
grandi fiocchi irregolari mentre Lucio faceva colazione. Lo speaker di Radio
Popolare commentava le ultime notizie della rassegna stampa e diceva che
avrebbe smesso di nevicare solo verso sera, che in quel momento i mezzi di
trasporto erano fermi, che solo la metropolitana stava funzionando, e la città
sembrava un deserto.
“Non prendete la macchina”, si
raccomandava con voce morbida.
“Chi può permettersi una macchina”, diceva Lucio rivolto alla gatta che lo guardava con i
suoi grandi occhi ambrati. Lui era un ragazzo da metropolitana e, ci avrebbe
scommesso, quella mattina ci sarebbe stato un gran bel casino. Lucio si era
vestito, non doveva perdere la metro delle otto e mezza. Ammesso che le corse
fossero regolari. Mentre indossava il cappotto aveva buttato un’occhiata
all’orologio. Accidenti, si era perso a guardare il panorama ed era in ritardo.
Fuori l’aria era fredda, le orecchie improvvisamente gli avevano ricordato che
il cappello era rimasto sull’appendiabiti. Si era girato per tornare indietro.
“Se prendo il cappello, perdo la metro”. Ci aveva ripensato. “Non importa, che
vuoi che sia un po’ di neve sulla testa”, si era detto ignorando la calvizie
incipiente infreddolita.
Nella metropolitana c’era tanta
gente e faceva caldo, la testa e la faccia gelate si erano messe a pulsare
stimolate dal calore. Schiacciato fra un signore in completo grigio e un
ragazzo con lo zaino sulla schiena Lucio respirava appena. Alla fine, dopo qualche fermata, era riuscito a sedersi. Come tutte le mattine aveva
indossato le cuffiette e in quel momento Thelonius Monk e il suo quartetto lo
isolavano dal mondo. Era libero di correre con la mente. Galoppava e scorreva
gli ultimi mesi. La metro delle otto e mezza, sì, sì, era riuscito a prenderla.
La incrociava tutti i giorni alle
nove davanti al Tintero. Anche se lavora lì vicino, Lucio al Tintero non ci
aveva mai messo piede. Lui non pranzava mai fuori dall’ufficio, e meno che mai
al ristorante, gli sembrava una perdita di tempo, meglio un panino alla
scrivania, prosciutto e burro, glielo portava sempre il suo amico Giovanni.
Adesso, però, il Tintero era diventato il suo posto preferito, perché lì
davanti incontrava quella ragazza così carina. Non tanto alta, minuta, con una
massa di riccioli rossi e la pelle chiara, aveva un sorriso luminoso. Lucio
ignorava il suo nome e non aveva mai osato fermarla per chiederglielo, anche
dopo che si erano scambiati il primo saluto. “Buongiorno” aveva detto lei,
“Buongiorno” aveva risposto Lucio. A volte, seduto in metropolitana, si era
immaginato mentre le rivolgeva la parola raccontandole che era un programmatore
di computer, che lavorava in un grande ufficio e, nella sua testa, si era
spinto addirittura a chiederle di pranzare insieme. Tutto sempre chiuso nella
sua testa. A immaginare e mai osare. Quella testa che aveva inventato
situazioni e parole, proposte, inviti. A volte accettava, a volte rifiutava, ma
la voce delle risposte era sempre quella di Lucio. Certo, lei lo guardava con
quel suo sguardo vellutato, quello che usava tutti i giorni per ricambiare il
suo buongiorno, ma nella mente di Lucio la voce non c’era. Solo sguardo. Forse,
quello sguardo era una risposta silenziosa.
Anna, ha la faccia da Anna. Una
sera Lucio si era sorpreso a sceglierle un nome, almeno avrebbe smesso di
essere Lei o la Rossa Carina. Che anche quel giorno avrebbe incontrato. Oppure
no?
Quella mattina uscendo dalla
metropolitana Lucio era rimasto a bocca aperta. Era proprio un giorno speciale,
irreale, surreale, fantastico. Intorno a lui c’era il deserto, nevicava e lo
spettacolo era magnifico. La mole imponente del Castello Sforzesco
s’intravedeva appena attraverso la foschia e i fiocchi che cadevano fitti.
Lucio camminava cauto, passi incerti, per non rovinare lo strato di neve
intonsa e perfetta. Thelonius Monk continuava ad accompagnarlo, con quella
musica struggente e cullante. Si era fermato un attimo, aveva respirato, la
testa già ghiacciata, le orecchie fredde, aveva sorriso. Poi, si era avviato
verso l’ufficio. Le nove e cinque, il cuore si era fermato di un battito, sono
le nove e cinque. “L’ho mancata. Accidenti l’ho mancata”, quasi gli erano
salite le lacrime agli occhi. Invece l’aveva vista. Camminava lungo Foro
Bonaparte, arrancando un po’ nella neve. Il piumino verde mela e il cappello
nero coperto da un monticello di fiocchi la facevano sembrare un insolito,
gigantesco pasticcino. Teneva le mani in tasca e si era guardata intorno, come
se stesse cercando qualcuno. Poi aveva visto Lucio gli aveva sorriso. Un
sorriso grande, luminoso. Il sorriso di chi ha
quello che vuole. Lucio si era preparato a dire il solito “Buongiorno”, come
tutte le mattine. Aveva inspirato l’aria fredda e aveva sorriso anche lui. Il sorriso di chi ha trovato quello che cercava. Lei
si era avvicinata, lenta, nella neve alta. A un certo punto aveva fatto una
specie di affondo, le braccia tese davanti a sé. Era sembrata cadere, cadere
verso Lucio che aveva tirato fuori la mano dalla tasca e l’aveva afferrata. Lui
non aveva mosso un muscolo, rimasto senza fiato dopo quel primo contatto
fisico. Aspettava. Gli occhi castani di lei fiammeggiavano di una strana furia,
erano profondi e intensi. Poi lo aveva afferrato per il bavero del cappotto e
lo aveva guardato dritto negli occhi per qualche secondo. Sembrava volerlo
rimproverare per qualcosa, ma non aveva detto nulla. Lucio era rimasto immobile
a guardarla, lei allora di colpo aveva passato le mani dietro la nuca di lui e
si era avvicinata. Si era avvicinata pericolosamente al viso di Lucio, paralizzato,
poi con le labbra aveva sfiorato le sue. Una lunga scossa aveva percorso la
colonna vertebrale di Lucio, una luce era esplosa dietro ai suoi occhi. La
bocca di lei era soffice contro la sua. Un bacio duro, brusco però. Lucio era
impietrito, si sentiva come se il ghiaccio di quella mattina gli fosse entrato
dentro. Non accennava a muoversi. Allora, lei aveva dischiuso le labbra e con
la lingua aveva dato leggeri colpetti al labbro di Lucio che aveva risposto
automaticamente movendo la lingua al suo ritmo. Il tempo si era fermato, le
mani di lei frugavano sotto il cappotto. Lui era rimasto immobile, basito,
esterrefatto. Sentiva dentro un calore che scioglieva il gelo di prima, che
liquefaceva ogni inibizione, ogni timidezza. Dopo lo stupore Lucio aveva preso
coraggio e si era avventurato nel piumino verde, cercando il suo seno, sorpreso di trovare solo una camicetta, stupito
di non sentire un reggiseno. Si erano baciati come se fosse l’ultima volta,
come se non ci fosse stato nessun altro al mondo. Intorno a loro non c’era
l’urlare delle sirene, non c’era lo sferragliare dei tram, non c’erano i
passanti, solo il silenzio della neve che continuava a cadere nel cappello nero
rovesciato a terra. Si erano sfiorati, toccati, senza scambiarsi nemmeno una
parola. Le mani avevano accarezzato, palpato, inquiete, dure, eccitate. Lui
tremava indeciso, frugale, timido. Lei mugolava leggermente, più audace,
sfacciata. All’improvviso lei si era staccata, guardandolo di sottecchi, si era
abbassata a raccogliere il cappello, aveva scosso via la neve e lo aveva
rimesso in testa. Si era girata, “Buongiorno”,
aveva detto. Lucio aveva risposto meccanicamente “Buongiorno”, come aveva fatto
tutte le mattine, alla stessa ora, per tre mesi. Lei era si allontanata lasciandolo
fermo sul marciapiede innevato; l’orologio di Lucio segnava le nove e venti;
Thelonius Monk aveva smesso di suonare da un bel po’.
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