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Il mare di Curaçao |
Strano momento. Tutto
doveva cominciare una domenica notte. Era stato annunciato, il passa parola
aveva sfiorato le bocche dell'intera nazione, si era diffusa la notizia, dopo
gli scontri di Caracas qualche giorno prima. Scontri tra l'altro neanche troppo
cruenti, ma in effetti abbastanza rappresentativi di quello che poteva
accadere. Nessuno era sicuro se sarebbe successo veramente. L'aria era carica
d'attesa tesa e lineare, come tutti i momenti di stallo. Noi, insieme ad altri,
avevamo passato l'intera giornata a casa di un amico, che viveva sulle alture
di Valencia, una città collinosa e relativamente tranquilla a due ora da
Caracas. Un appartamento dal cui terrazzo si godeva una vista mozzafiato sulla
città, una città piena di verde punteggiato da funghi giganti, i grattacieli e
i condomini venuti su veloci negli anni precedenti, una città nella quale la
giungla riusciva ad avere l'ultima parola col cemento (nel blog
"Incontro ravvicinato a Valencia" racconta cosa poteva succedere
passeggiando da quelle parti). Ci sentivamo un po' privilegiati, isolati e
tranquilli. Com'era naturale l'argomento preferito sin dall'aperitivo era stata
la rivoluzione annunciata. Mentre bevevamo Mojito, sorseggiavamo vino bianco
cileno e inghiottivamo Whisky con tanto, tanto ghiaccio, come usa in Venezuela,
qualcuno aveva detto: "Ma come pensiamo di comportarci dovesse scoppiare
il casino?", erano partite parole in libertà. Chi voleva scappare in barca
verso Curaçao, magari pagando uno dei traghettatori che di solito portavano a
spasso i turisti per i magnifici Cayos, le isole di sabbia bianchissima non
lontane da Valencia. Curaçao in linea di mare è vicinissima al litorale
venezuelano, ed essendo territorio Olandese all'epoca sembrava una buona via di
fuga. Altri pensavano di accamparsi all'aeroporto, saltare sul primo aereo in
partenza che avesse come destinazione il primo paese a caso. Altri parlavano di
armarsi fino ai denti, controllare l'arsenale casalingo e trovare pistole,
coltelli, sciabole, machete, forchette, forbici, qualsiasi cosa potesse essere
utile per fare del male e, poi, chiudersi in casa aspettando il nemico.
Magari guatando la porta. Si discuteva di rivoluzione, vie di fuga, spari e
bombe, come normalmente di si discute di vino, cibo, figli, amici, moda,
politica, meteo con la leggerezza dovuta ai pranzi fra amici. Con nonchalance
si parlava di ritirare quanti più soldi possibile dalle banche, si sproloquiava
di viveri da accumulare, soprattutto scatolette, di farina da comprare, di cibo
congelato per stivare il congelatore ed avere un po' di autonomia, giusto come
si dice "la settimana prossima tutti a cena da me". Si facevano piani
di fuga verso la giungla colombiana, si però da quelle parti c'è la
guerrilla, diceva qualcuno, rischi di finire dalla padella alla brace, magari
ti rapiscono e resti prigioniero anni come la Bettancourt. Ecco si discuteva di
queste cose come se fosse normale trovarsi in quella situazione, come se la
rivoluzione fosse un pranzo di gala. Prima del dessert ci eravamo già
organizzati il nostro piccolo esercito privato, fornito di degno arsenale, che
si si sarebbe nascosto a casa di un amico che si trovava in un posto con alti
muri e vigilanza armata; ci eravamo già auto traghettati, carichi di contanti,
svariate volte tra Curaçao, Aruba e Bonnaire; eravamo volati con diversi aerei
alla volta di Miami, San Paolo, Bogotà, Quito, Cuba, ah no Cuba no perché Fidel
era il grande alleato di Chavez. Non erano partite telefonate agli amici e
familiari che vivevano in una delle città sopraccitate giusto perché ci pareva
brutto metterli in agitazione. Io pensavo a cosa potevo lasciarmi dietro senza
rimpianti e cosa portami invece di fondamentale. Mi sarebbero manacate
moltissimo le Arepas, sì, ecco, magari mi sarei portata dietro un chilo di Masa
Harina giusto per non scordarmi il loro sapore. Certo, fossi sbarcata in
Colombia non avrei avuto il problema, si mangiano anche da quelle parti, però
lì c'era il problema dei rapimenti. Già. Verso sera tutti eravamo tornati a
casa, per aspettare l'annunciato inizio della Rivoluzione. E puntuale, come
solo le rivoluzioni annunciate sanno essere, era partita. Alle due di notte,
perché una rivoluzione seria parte quando meno te l'aspetti, in un momento
morto, soprattutto di notte, magari perché si spera di beccare l'esercito
addormentato, chissà. Macchine che sfrecciavano lungo i viali, colpi di
pistola, fucili tonanti, urla selvagge, qualche bomba moltov lanciata alla rinfusa,
tutto il necessaire per una rivoluzione seria era stato dispiegato. Era
iniziata così, semplice facile, indolore. Legittima conseguenza dei cazarolazos.
Abbiamo guardato per un po' dalle finestre di casa nostra, situata al
tredicesimo piano ed in posizione strategica. Non si vedeva niente, si sentiva
solo il rumore. Dopo un po' ci siamo stufati. Se la rivoluzione non è un pranzo
di gala, non è nemmeno un momento da perderci il sonno allora. Avremmo visto il
giorno dopo quale sarebbe stato il nostro destino. Forse era l'atmosfera, forse
un paese così mite come il Venezuela non ci lasciava speranze per una vera
rivoluzione di sangue, non eravamo particolarmente impauriti. La mattina dopo
ci eravamo aspettati di vedere un po' di carriarmati dell'esercito girare per
la città, però niente. Devo dire, avevo sognato di vedere movimento di
militari, fucili, fuoco. Dalle piazze si alzavano colonne di fumo, erano gli
pneumatici che bruciavano accanto alle barricate preparate dagli studenti. Si
sentivano voci, qualche colpo e qualche scoppio (senz'altro molotov), ma niente
che facesse veramente paura. Io sarei voluta uscire, sono pur sempre una
giornalista e stare sul pezzo, come si dice in gergo, è un dovere che mi è
rimasto attaccato dai tempi della redazione. Purtroppo avevo la proibizione di
mettere il naso fuori di casa, ma scalpitavo, mi sarebbe tanto piaciuto vedere
da dove proveniva il fumo che saliva in basso sulla sinistra, proprio sotto
alla collina. Verso le dieci del mattino mi ha chiamata la mia amica "Che
fai?" e io a spiegare che dovevo stare a casa. "Già, ma non puoi
uscire a piedi, vero?", in effetti non era stato specificato, siccome non
possedevo una macchina era ovvio che la proibizione fosse quella di non
uscire... a piedi. "Ti vengo a prendere con la macchina", due minuti
ed era sotto casa mia, siamo partite verso la sua, di casa, quella col terrazzo
vista mozzafiato, e dall'alto ci siamo messe ad osservare. Fumo, movimento,
eccitazione. Ci sentivamo un po' Nerone che guarda bruciare Roma, anche se
pareva che Valencia non bruciasse abbastanza da decretare il disastro.
Dopo un po' chiedo alla mia amica "Ci facciamo un giro?",
senz'altro sì, senz'altro, credo non aspettasse altro. Siamo andate a vedere la
Rivoluzione. Tutte contente. Come se andassimo in gita. Siamo rimaste deluse,
eravamo armate di macchian fotografica, registratori, quadernetti per appunti,
non si sa mai che si riesca ad intervistare un rivoluzionario e a mandare il
pezzo in Italia, di primissima mano. La giornalista nemmeno tanto sopita dentro di noi sembrava un
puledro sbrigliato. Niente, abbiamo trovato gli ultimi pneumatici che
bruciavano, nemmeno una pallida imitazione di studente in giro, qualche
poliziotto, qualche militare, ma nulla, alle undici era già tutto finito. Alle
undici e dieci eravamo sedute al solito bar, un'arepa Reina Pepiada in una
mano, un caffé lungo nell'altra, nel dehors, a guardare il via vai della gente.
Come se non ci fosse stata nessuna rivoluzione degna di nota.
Il giorno dopo sono
riprese le proteste, un po' di scontri con la polizia. Niente di terribile,
niente di devastante.
Alla domenica è arrivata l'ora
del Referendum, gli osservatori delle Nazioni Unite pronti a controllare la
regolarità del voto, le urne aperte, la gente in fila, il mondo a guardare.
Durante tutto il giorno i seggi brulicavano di gente, avanti indietro, dentro
fuori, noi eravamo al nostro solito pranzo della domenica con amici. Tutti
avevano votato. Ovviamente per il NO alla Reforma. Non vogliamo cambiare la
costituzione Presidente, ripeteva il mio amico venezuelano fino al midollo, già
un po' alticcio alle due e un quarto del pomeriggio. Alla sera, eravamo lì a
bere Tequila Reposado, Birra, Vino, Mojito, sgranocchiando di tutto, era dalla
mattina che sgranocchiavamo, in frigo c'era una bottiglia di Spumante, cileno,
ovviamente, pronta per ogni evenienza. Parlavamo di tutto e di niente,
aspettavamo un filo annebbiati dall'alcool (eufemismo, in Venezuela non si è
mai un filo annebbiati dopo il pranzo della domenica), per non parlare della
botta di calore di quel giorno salita all'improvviso e che ci aveva devastanti.
Due dicembre, caldo, sudore copioso, alcool, votazioni, ci girava la testa.
Mentre venivano diffusi i primi risultati, il nostro amico è andato in cucina,
ha preso la bottiglia è arrivato e l'ha stappata sorridendo. Abbiamo saputo,
più un "si mormora" che una cosa certa, che nello stesso istante
Chavez ha tirato un pugno contro uno dei mobili del suo ufficio. C'è stato un
boato soddisfatto in tutta la nazione e abbiamo bevuto alla salute del
Presidente. Rimasto con un palmo di naso.
(2-fine)
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