mercoledì 31 ottobre 2012

MEZZE PENNE CON ZUCCA SAPORITA

In epoca di Halloween, e in questa stagione, cosa poteva essere il piatto principe della settimana? Ovvio, la zucca. Un delizioso piatto che anche i miei commensali non amanti della zucca hanno apprezzato. E la piccola strega che è me vi chiede: Trick or Treat... o come è tradotto in italiano dolcetto o scherzetto.

380 g di mezze penne - 600 g di zucca tagliata a dadini piccoli - 2 cucchiai di pinoli - 1 cucchiaio di capperi - 4 acciughe dissalate - 1 spicchio d'aglio - 1 mazzetto di prezzemolo - 6 cucchiai di olio - sale pepe

Tritare i pinoli, i capperi, le acciughe, lo spicchio d'aglio insieme al prezzemolo, fino ad ottenere un trito grossolano. Tenere da parte. Scaldare quattro cucchiai di olio in una padella, unire i dadini di zucca e far cuocere girando spesso per cinque  minuti. Scolare la zucca e asciugarla con un po' di carta assorbente. Portare ad ebollizione l'acqua per la pasta, salarla. Mettere l'olio restante in padella, unire il trito di aromi e far scaldare. Aggiungere la zucca, far cuocere qualche istante per insaporire bene, salare e pepare, e unire qualche cucchiaio di acqua. Portare a cottura, la zucca deve risultare tenera ma non deve disfarsi. Unire un quarto di mestolo di acqua di cottura della pasta, che scolerete al dente, unirla alla padella e prolungare la cottura per un paio di minuti. Servire.
per quattro persone 


martedì 30 ottobre 2012

HALLOWEEN A FERRAGOSTO

Era estate, avevamo si e no quindici anni, e dovevamo passare le serate senza lasciare il paese. Non era facile divertirsi, bisognava inventare qualcosa di diverso da fare ogni sera. Cose che dovevano finire a mezzanotte, all'epoca ora del coprifuoco generale per tutti i quindicenni. C'era un ragazzo, oggi è uno stimato professore universitario, che era il deus ex machina di tutti i danni che facevamo per le vie del piccolo paese rivierasco. Una mente sopraffina, ovviamente rimasta tale visto il ruolo nel formare le nuove generazioni, una mente intricata, una mente diabolica. Aveva studiato un sistema per fare divertire tutti, in modo economico e piuttosto molesto. Un giochetto fatto di niente: ci dovevamo mettere in fila indiana e camminare lungo la passeggiata dove c'erano persone di ogni età, sesso, condizione economica e credo politico. Tutti, insomma, ma proprio tutti, gli ospiti della ridente località balneare che passavano la serata leccando il gelato, chiacchierando e, soprattutto, passeggiando. Allora, di solito noi eravamo una decina in fila indiana, ogni persona che incontravamo meritava una nostro grugnito, ma non emettevamo il verso del maiale dicevamo semplicemente GRU. Alcuni ci guardavano sospettosi, altri sorridevano, altri, al quinto GRU di fila rispondevano. Alla fine della fila la probabilità che qualche passante dicesse GRU per primo era altissima, allora entrava in azione l'ultimo. L'ultimo era ovviamente il professore, che invece di dire GRU urlava  a pieni polmoni: TAAAACCCCOOOO. Traumatizzando a vita il povero passante. Ridevamo come pazzi, e anche a lungo. Vedo che tutti voi state guardando lo schermo increduli. Capisco, ma avevamo quindici anni ed eravamo pericolosamente in bilico sul baratro dell'idiozia da nullafacenti. Pensate a chi ha inventato il gioco, oggi potrebbe essere il professore di vostro fratello, figlio, nipote, figlioccio. Non dirò nemmeno sotto tortura dove insegna, posso solo certificare che è un docente di fama internazionale e che su di lui poggiano svariati pilastri del mondo occidentale. Le nostre serate trascorrevano così, con questi geniali giochi, cazzeggi vari e divertissements che rasentavano la demenza cronica. Robe tipo gara dello sputo più lungo, tiro di sassi dentro al mare o, a pensarci adesso mi vengono i brividi, gara coi motorini sul rettilineo. Due motorini si fronteggiavano a una distanza stabilita, davano il massimo del gas e poi puntavano uno verso l'altro, dovevano scartare più vicino possibile prima dello scontro definitivo. Un gioco molto, molto intelligente. Non lo ha inventato il professore, ma uno che oggi fa il meccanico. Occhio a chi affidate la macchina.
E poi è arrivata la scoperta. La villa disabitata. Quella villa era lì da sempre, disabitata da sempre, piena di rovi da sempre, ma noi l'abbiamo scoperta l'estate dei nostri quindici anni, complice un buco nella rete. Dentro banchettavano topi grandi come furetti, serpenti lunghi come anaconda, cinguettavano uccelli di vario tipo e di notte, nel buio più fondo, si sentivano strani rumori. Magnifico. Abbiamo timidamente cominciato a giocare a nascondino nelle zone più illuminate, quelle vicino ai lampioni della strada. Entravamo dal buco e ci sparpagliavamo, il gioco si chiamava Nascondino Mortale. Mortale non si sa perché, ma "fa gnente". Dopo un po' siamo passati a rincorrerci nei vialetti ululando come forsennati. E una sera abbiamo scoperto che c'era un passaggio per entrare dentro alla villa. Chiamarla villa è riduttivo, era un palazzo principesco. Una costruzione enorme con nascondigli, anfratti, segreti. Ci siamo procurati una torcia e abbiamo cominciato ad esplorare l'interno. I grandi saloni vuoti, le stanze piene di erbacce e calcinacci, il parquet che cigolava sotto i nostri passi, i topi che scappavano disturbati dalla nostra luce. Così trascorrevamo il nostro tempo dopo cena, inquieti e felici. Poi, una notte senza luna la torcia si è spenta, le batterie forse si erano scaricate. Le nostre voci si sono accavallate, chi sosteneva che fosse meglio non muoversi, altri che peroravano la causa del "fuggiamo a gambe levate che sono un filo agitato", alcuni ridacchiavano nervosi.  All'improvviso è calato il silenzio, ed è stato proprio allora che abbiamo sentito una voce flebile accompagnata da un chiarore lattiginoso, sembrava la voce di  un bambino che piangeva piano. Poi un rumore lieve, una sorta di fruscio, e un'ombra bianca che si muoveva veloce. Qualcosa ha sfiorato la guancia della mia amica e lei ha cominciato ad urlare, fortissimo. E anche noi, presi dal panico, abbiamo urlato e siamo scappati verso l'uscita. A perdifiato tra i rovi, i tronchi, le pietre. Fuori, fuori. Una corsa cieca, un passaggio veloce nella rete metallica, ci siamo trovati tutti in salvo sul marciapiede illuminato. Unico assente il professore, che sta ridendo ancora adesso.

domenica 28 ottobre 2012

CUCINA PAULISTANA - PUDIM DE CLARA (DOLCE DI MERINGA)

Questo è un dolce che permette di sfruttare le chiare delle uova, soprattutto perché i tuorli sono onnipresenti nella cucina paulistana/portoghese e ci si trova sempre ad avere albumi in eccesso. Leggero come una nuvola, forse un po' dolce e stucchevole, è molto tipico.

per la meringa: 5 albumi - 200 g di zucchero - 1 cucchiaino di scorza di limone grattugiata - frutta tropicale tagliata a dadini o frutti di bosco per accompagnare

per il caramello: 125 g di zucchero

Preparare il caramello: mettere lo zucchero con un paio di cucchiai di acqua su fuoco medio, quando avrà assunto un bel colore ambra scuro versare il caramello in uno stampo con il buco e girando velocemente coprire tutta la superficie dello stampo.
Per la meringa: mettere gli albumi in uno sbattitore elettrico a bassa velocità e montarli finché non si forma una schiuma, aumentare la velocità e unire lo zucchero. Quando la meringa è perfettamente montata, avrà un aspetto lucido e liscio, unire la scorza di limone. Versare nello stampo dove c'è il caramello e mettere in forno a 250 per cinque minuti o finché la superficie non è ben dorata. Lasciar raffreddare per un quarto d'ora e mettere in frigorifero per due ore o fino al giorno dopo. Per servire passare il coltello sulle pareti dello stampo, metterlo sopra un piatto di portata e sformarlo. Servire con la frutta a parte.
per otto persone

P.S. Comunque gli albumi congelano benissimo, divideteli in un contenitore ermetico segnando la quantità (in grammi o numero) e scongelateli con largo anticipo in caso di necessità. 

venerdì 26 ottobre 2012

CUCINA PAULISTANA - ARROZ BIRO BIRO (RISO ALLA BIRO BIRO)

Questo è un riso che preparano nella Churrasqueria Rodeio, una delle più tradizionali di San Paolo. Questo riso arricchito da patate, cipollotti, pancetta è un piatto sontuoso, e prende il nome dal giocatore di calcio Biro Biro, che sovente cenava il quel ristorante e lo ordinava. E' una loro specialità e la servono come contorno ai magnifici tagli di carne alla griglia (non è un rodizio), benché potrebbe essere mangiato da solo. Tra i pezzi che preferisco la Picanha Fatiada. Si tratta di una Picanha intera passata per pochi istanti sulla griglia calda e, poi, tagliata e ripassata su un'apposita griglietta direttamente al tavolo. Una favola. 
Un piatto un po' elaborato da eseguire, ma molto, molto paulistano.  

tre patate rosse - 300 g di riso (non per risotti) - 1 cipolla - 2 uova - un grande mazzo di prezzemolo tritato - 60 g di cipollotto tagliati fini - 4 fette di pancetta affumicata a dadini - 3 cucchiai di olio d' oliva - olio per friggere - sale pepe

Sbucciare e pulire le patate tagliarle a bastoncini finissimi o grattugiarle nella grattugia multipla col foro grande. Lavarle sotto l'acqua corrente per togliere l'amido. Metterle in una ciotola grande e versare acqua gelata fino a coprirle. Tenerle in frigo per mezz'ora.
In una casseruola scaldare un cucchiaio di olio e unire il riso. Mescolare per qualche minuto finché il riso non abbia assorbito l'olio. Aggiungere mezzo litro (e qualcosina di più) di acqua, salare e portare ad ebollizione. Abbassare la fiamma, coprire e continuare la cottura finché il risotto non sia tenero, circa venti minuti.
Scaldare una friggitrice o mettere l'olio in una pentola profonda e friggere le patate a 180 gradi, ben asciugate con un canovaccio, finché non sono belle dorate. Scolarle su carta assorbente e tenere da parte.
In una padella scaldare il restante olio unire i cipllotti e farli cuocere per cinque minuti. Ridurre la fiamma e unire le uova sbattute e, aiutandosi con un cucchiaio di legno, farle "strapazzare" leggermente. Aggiungere il riso (se nella pentola dove è stato bollito fosse avanzato del liquido scolarlo)  , il prezzemolo, la pancetta e mescolare ancora per un minuto. Terminare aggiungendo le patate fritte. Servire.
per sei persone 

giovedì 25 ottobre 2012

CUCINA PAULISTANA - BACALHAU COM LEITE (BACCALA' AL LATTE)

Una ricetta molto portoghese che ho mangiato in uno dei tanti ristoranti portoghesi di San Paolo, non sapendo che saremmo stati trasferiti in Portogallo subito dopo il Brasile. Forse le volte che ci siamo rimpinzati di Baccalà avevamo espresso un desiderio. Come molte ricette portoghesi contiene uova. I portoghesi vanno pazzi per le uova. 

due filetti di baccalà dissalato - 1 cipolla piccola - due cucchiai di olio d'oliva - 1 litro di latte intero - 150 g di pane - 1 cucchiaio di vino bianco - 3 uova - sale pepe

Preparare un soffritto con la cipolla tritata e l'olio. Unire il baccalà sfaldato con un forchetta, farlo insaporire per un paio di minuti. Aggiungere il latte in quantità sufficiente per coprire il baccalà. Quando il baccalà sarà tenero (ci vorranno almeno quaranta minuti), unire il pane tagliato a fette e farlo ammollare. Se il latte non fosse sufficiente aggiungerne ancora. Aggiustare di sale e pepe. A questo punto unire le uova sbattute e trasferire in un piatto di portata adatto ad andare in forno. Mettere nel forno a 180 finché il tutto non è ben dorato.
per quattro persone 

mercoledì 24 ottobre 2012

CUCINA PAULISTANA - PIZZA POMODORI SECCHI E RUCOLA

San Paolo è una città dove si incontrano molte realtà, da una parte è la città più italiana del Brasile, ma possiede anche la comunità giapponese più grande al mondo, dopo il Giappone, ovviamente; la presenza dei libanesi è altrettanto forte, per non parlare del melting pot locale fatto di incontri di geni e razze diverse. D'altronde una città con più di 18 milioni di abitanti non poteva non essere diversa così multietnica. La cucina paulistana (tipica della città di San Paolo, perché paulista vuol dire dello Stato di San Paolo) è così variegata, così complessa, così multietnica da far impallidire persino New York. Si trovano risotti cotti alla perferzione, Sushi di qualità eccelsa, Kibe (piatto libanese di carne) sublimi, Coq Au Vin eccellenti, Arroz Marineiros (cucina galiziana) da manuale, Bacalhao à Braz come a Lisbona. Bistecche speciali in posti speciali, Rodizios da favola, ristoranti tradizionali di cucina bahiana, mineira (dello stato di Minas Gerais), Amazzonica (cercare la ricetta della minstra Tacaca nel blog). E poi ci sono gli sfizi tipici della città: Baurù (più paulista che paulistano, a dir la verità), toast sublime da far venire l'acquolina in bocca solo a pensarci, o un Beiruth (pron. Beiruche, come se la "th" fosse un colpo di frusta)  da accompagnare con un Rabo de Peixe da Frevo (Rua Oscar Freire, la casa storica, e altri 2 indirizzi, esiste dagli anni cinquanta). Cosa ho appena detto? Beiruth? Panino fatto con pane arabo. ripieno di una bistecchina o Roast Beef, con pomodoro o insalata e formaggio, tostato su una griglia calda, slurp. Oggi anche disponibile in versione vegetariana. Rabo di Peixe? Bicchiere, di quelli alti, a bocca larga e strettissimi alla base, pieno di birra bionda gelatissima. Un sogno in una giornata tropicale, prende il nome dalla lisca di pesce (rabo de peixe) che ricordano nella forma, soprattutto dopo la settima bevuta seduti al loro bancone immutato dall'inaugurazione. Si dice che gli sport preferiti dai paulistani siano due: scendere al litorale (paulista, bellissimo, imperdibile) e mangiare, ci sarebbero anche gli elicotteri, ma questa è troppo snob per poterla citare, e poi il blog parla di viaggi e cibo. Comunque, se proprio volete saperlo San Paolo è la città al mondo con maggiore presenza di elicotteri, ecco, ho persino letto un'intervista ad una signora di cui ho rimosso il nome che diceva più o meno così: "Non capisco perché  la gente si ostini a fare le code per andare sul litorale, è così comodo l'elicottero". A parte queste cose che ogni tanto capitano, ammetto, Sao Paulo, è una delle città dove ho qualitativamente mangiato meglio in vita mia. Questa settimana sotto il titolo generico di Cucina Paulistana proporrò le ricette delle diverse culture che si possono incontrare in città. 
Oggi propongo l'Italia con una versione di pizza ai Pomodori secchi e rucola, quella che ogni domenica ci veniva recapitata a casa dalla pizzeria all'angolo, dopo il cinema. 

300 g di pasta per pizza - 150 ml di salsa di pomodoro ristretta già preparata - 1 mozzarella tagliata a dadini e sgocciolata per una mezz'ora in un colino - 10 pomodori secchi ammollati per qualche ora nell'acqua fredda - una grande manciata di rucola - olio sale
Pomodori Secchi Marinati al Mercato 

Stendere la pasta per pizza, disporvi la salsa di pomodoro già salata e pepata. Mettere in forno a 220 gradi per cinque minuti. Tirare fuori e unire la mozzarella, un filo d'olio. Quando la mozzarella è fusa e la pasta dorata togliere dal forno, unire i pomodori secchi e rimettere in forno per qualche minuti. Togliere e unire la rucola subito prima di servire caldo.
per quattro persone 

martedì 23 ottobre 2012

LA VALIGIA

Litorale paulista, che non si trova sull'altopiano
Quando ho preparato la valigia per il Brasile è stato difficile, non perché ci saremmo trasferiti per "fino a data da destinarsi", piuttosto perché è stata una lotta mettere la roba dentro a quella valigia. Mi spiego meglio. Avevo l'armadio davanti a me, pieno di cose invernali: montagne di piumini e roba tecnica, strati di pantaloni anti vento, cumuli di guanti con imbottiture variabili, per temperature rigide e meno rigide; c'erano maglioni a diverse gradazioni di calore e colore, scarponi rivestiti di pelo o semplici, calzettoni, calze, calzamaglie. Guardavo la roba e mi veniva da piangere. Si mi scendevano dei metaforici lucciconi agli occhi perché ero felice, e triste insieme, quella roba era servita per la nostra permanenza in Cina in una zona dimenticata da Dio e da alcuni uomini. Una zona dove era considerata una temperatura mite meno quindici gradi sotto zero, un posto dove soffiava un vento, tagliente e inesorabile, misto a carbone e terra finissima. Terra finissima e carbone che si depositavano sulle tue labbra, sui tuoi polmoni, sulle tue cose. Vento inesorabile che rendeva i meno cinque gradi centigradi una temperatura primaverile, da uscire di casa con le mezze maniche. Per intenderci, faceva talmente caldo in quella zona che il garage della nostra macchina era dotato di un riscaldamento autonomo. E poi secco. Aria secca, senza neanche una minuscola goccia d'acqua. Così secco che se mettevi la crema dopo dieci minuti dovevi riapplicarla, così in un vizioso loop per tutto il giorno. Lì avevo perso ogni nozione di cambio di stagione, sia dal punto di vista atmosferico sia ambientale. Non c'erano alberi, non c'erano fiori, non c'era nulla. Solo roccia, fango, colline brulle punteggiate da mozziconi di Muraglia e un paio di fiumi gelati d'inverno, immoti d'estate. Colore imperante: le cinquanta sfumature del grigio, senza gli intemezzi sadomaso. Anche il cielo era grigio perla, sempre, in qualsiasi stagione dell'anno, ma solo dove eravamo noi, pochi chilometri più in là già era tutto diverso. Stranamente in quegli anni, e nei precedenti, abbiamo vissuto in luoghi dove tutto cambiava solo "pochi chilometri più in su o più in giù", eravamo dotati di una grande sfiga meteorologica.
Come dicevo ero davanti a quell'armadio, stracolmo di roba da sci e similari, e dovevo preparare qualche misera valigia per i primi tempi. Le nostre casse sarebbero arrivate a seguito. Che tempo fa in Brasile? Lo dice la canzone di Jorge Ben Jor "Moro num pais tropical abençoado por Deus..." (vivo in un paese tropicale benedetto da Dio... ). Tropicale. Caldo. Umido.  La gioia di pensare all'umido, al sudore, a quel caldo che ti tramortisce, a quei bei trenta gradi di ebollizione, alla foschia da caldo sull'asfalto. Puro Paradiso, ma io avevo accumulato tanto di quel freddo che mi pareva giusto portare un bel piumino pesante anche dalle parti di San Paolo. Se fino a quel momento avevo vissuto in un paese in bianco e nero, adesso mi aspettavano i colori. Verde in tutte le sue sfumature, rosso nelle varie gradazioni, azzurri come se piovesse, bianchi accecanti, gialli da tramortirti, così tanti rosa da stuccarti. Questo era il mio ricordo dei viaggi precedenti in Brasile: colori e caldo. Però desideravo il piumino. Mio marito cercava di dissuadermi, porta i costumi da bagno diceva. Ovvio che li avrei portati, ma una giacchettina a vento non sarebbe stata una cattiva trovata. No, giacchetta a vento no. Dentro quella valigia mettevo T-shirt, gonelle vaporose che non avevano visto la luce da svariato tempo, abitini leggeri, pantaloni freschi, camicie di lino. Ogni tanto ci provavo, infilavo un giacchino pesante giusto per non rimanere senza calore. Mio marito passava, gli dava un'occhiata e lo rimetteva nell'armadio. Là si suda, si ostinava a ripetere. Sono riuscita ad occultare alcune calzette di cotone negli angoli di una valigia, un magliocino di puro cashmire è stato nascosto nel doppio fondo della Samsonite, sotto le giacche di lino, lontano dagli occhi indiscreti del nemico. Ho esagerato, e mi sono pure lanciata in un paio di scarpe chiuse, non gli scarponcini da montagna, ma un paio di scarpe che potevo anche far passare per scarpe estive. Erano scarpe primaverili, nascoste sotto strati di sandali e ciabatte da mare. "Happiness is a Warm Gun" (La felicità è una pistola calda) titolavano i Beatles, per me Happiness era un maglioncino caldo. Il nemico era in agguato, non so bene come è riuscito a scovare uno scialle di lana leggera dentro al mio bagaglio a mano, eppure era nascosto così bene. L'avevo occultato dentro al mio beauty, sotto le creme e gli shampoo. Sequestrato. La mia ossessione mi stava facendo impazzire. Andavo a vivere ai Tropici, ai Tro-pi-ci. Ok, ho mollato il colpo.
Siamo partiti una mattina di metà settembre, un settembre mite e soleggiato. Niente di eclatante, ma quando hanno chiuso il portellone dell'aereo c'era il sole e faceva discretamente caldo. Il volo è stato perfetto. Siamo arrivati in orario, verso le sei del mattino, all'aeroporto di Guarulhos, a un'ora dal centro di San Paolo, di più se c'è traffico. Dogana, valigie, che come al solito erano troppe, gentile taxista che ci viene a prendere con pulmino, causa esubero bagagli. Fuori dall'aeroporto ci accoglie la mattina dell'altopiano paulista. Una mattina di primavera, perché come tutti sanno da quelle parti le stagioni sono invertite, anche se per i tropici si dovrebbe semplicemente parlare di stagione secca o umida. Nessuno può sapere che cosa ti aspetta una mattina di primavera sull'altopiano paulista, settecento metri di altitudine. Una di quelle settimane che a San Paolo capitano raramente, ma capitano, e che a volte si spingono anche a durare quindici giorni, un mese, come è accaduto quella volta. Sono quei settecento metri verso il cielo che ti fregano. Faceva freddo. F-r-e-d-d-o. Noi coi nostri pantaloni leggeri, la nostra magliettina sbracciata, i nostri sandali. A rinfrancarci nemmeno uno scialletto di lana leggera, quello del bagaglio a mano rimesso a forza nell'armadio. Io con la pelle d'oca (sì, sì lo so, per me uno stato naturale)  e mio marito che batteva i denti. L'ho guardato e lì, sul marciapiede affollato di viaggiatori, tra cui si riconoscevano i paulistani DOC, perché dotati di piumino, ho aperto la valigia e tirato fuori il maglioncino di puro cashmir occultato nel doppiofondo della Samsonite. Perché, io, in, fondo, al, mio, cuore, lo, sapevo, che, la, sfiga, meteorologica, non, ti, molla.

sabato 20 ottobre 2012

CREME CARAMEL ALL'AMARETTO

Un dolce dolce, così dolce da ricordare l'infanzia, ma  non così dolce da risultare stucchevole. Carino il giochetto con le parole, spero che questo dessert diventi un vostro grande classico come lo è per me. 


40 gr di amaretti – 130 gr di zucchero – mezzo lt di latte – 2 uova – 1 tuorlo

Sciogliere 30 grammi di zucchero e versarlo in 6 stampini rotondi da bordo alto con diametro 8 cm. Mescolare le 2 uova, il tuorlo e 100 gr di zucchero facendo meno schiuma possibile, unire gli amaretti macinati, il latte caldo e versare il composto negli stampini. Far cuocere per 50 min a bagnomaria in forno preriscaldato a 150°. Far raffreddare fuori dall’acqua e mettere in frigo. Si può servire guarnita da mini amaretti, amaretti spezzettati o granella di nocciole. 
per sei persone

venerdì 19 ottobre 2012

ORATA CON OLIVE E POMODORI

Oggi pausa dai frutti di mare, che sono buoni ma non bisogna abusarne. Questa ricetta è nata pensando alle ricette della tradizione ligure con l'aggiunta di un tocco di colore. 

1 orata da 1,2 kg - 8 pomodorini pachino o datterini - un abbondante pugno di olive taggiasche - mezzo bicchiere di vino bianco - 4 cucchiai di olio evo - uno spicchio d'aglio - un rametto di rosmarino - un' infiorescenza di finocchietto selvatico o semi di finocchio - origano - sale pepe



Mettere l'olio nella teglia unta con due cucchiai di olio. Salare e pepare l'orata nella cavità addominale, mettere un rametto di rosmarino e l'inforescenza di finocchietto o i semi di finocchio, unire lo spicchio d'aglio intero. Disporre l'orata nella teglia contornarla con pomodorini tagliati a metà e olive. Irrorare con il vino bianco e il resto dell'olio. Salare, pepare e spolverare con l'origano. Infornare a 180 per venti minuti o finché le l'orata non abbia raggiunto la cottura desiderata. Pulire l'orata e servire i filetti irrrorandoli col sughetto di cottura, olive e pomodori. Accompagnare con patate saltate in padella o al forno.
per quattro persone


giovedì 18 ottobre 2012

COZZE FRITTE SAPORITE

Come ben sa chi segue il mio blog le cozze sono una delle mie passioni, retaggio di un'infanzia belga. Qui la ricetta delle cozze fritte, un sublime intrattenimento per il palato. E un ottimo stuzzichino per l'aperitivo. 
C'è una diatriba, se siano meglio le cozze aperte col coltellino, una ad una, o quelle fatte aprire col calore dentro ad una grande padella. Si dice che quelle aperte col coltellino abbiano sapore migliore, io non sono del tutto sicura che questa affermazione corrisponda a verità. Personalmente, le ho mangiate e preparate nei due modi e, francamente, il "mazzo" che ci si fa è uguale e il sapore, i puristi  dell'apertura a mano, non me ne vogliano, cambia di poco. Scegliete voi il sistema che preferite. Io qui vi spiego come farle aprire. 

30 cozze grosse - 1 albume - 2 cucchiai di acqua filtrata delle cozze (anche un po' di più, se necessario) - 125 g di farina - timo secco sfogliato - peperoncino in polvere - pepe sale - olio per friggere

Aprire le cozze mettendole in una grande padella senza alcun tipo di condimento. Muovere la padella in continuazione e a mano a mano che le cozze cominciano ad aprirsi toglierle e metterle in un piatto. Eliminare le valve. Asciugarle bene. Unire alla farina il timo, il peperoncino in polvere, e un giro di pepe macinato al momento. Preparare la pastella: sbattete l'albume con l'acqua delle cozze fredda, unire la farina fino ad ottenere una pastella liscia e cremosa, eventualmente aggiungete altra acqua se fosse troppo "solida". Immergere le cozze nella pastella e passarle nell'olio a circa 180 gradi finché non sono dorate. Servire caldo.
per sei persone


mercoledì 17 ottobre 2012

OSTRICHE GRATINATE MEDITERRANEE

Facciamo di questa la settimana dei frutti di mare, visto che la protagonista del racconto è un'ostrica. Ma se è uno chef gnocco, dite. Sì, ma lo chef gnocco non si può cucinare, le ostriche e i frutti di mare invece vengono benissimo in pentola. Estenderei le ricette anche altri protagonisti del mondo sottomarino, perché così chi ha problemi di colesterolo e cattiva digestione almeno è contento.

12 ostriche del tipo Creuses - 12 capperi sotto sale - 2 acciughe dissalate - sei pomodorini di Pachino - 1 spicchio d'aglio - un cucchiaino di scorza di limone grattugiata - due cucchiai di prezzemolo tritato - cinque cucchiai di pangrattato - olio sale pepe

Aprire le ostriche (vedere il racconto "Un'ostrica ostinata" per il metodo) facendo attenzione a non disperdere il liquido. Far sciogliere le acciughe con due cucchiai di olio, unire i pomodorini tagliati a metà, il liquido delle ostriche, pepare e far cuocere qualche istante. Aggiustare di sale. Mescolare il pangrattato con il prezzemolo, la scorza di limone, l'aglio pochissimo sale. Mettere un po' del composto di pomodoro nell'ostrica, unire un cappero e cospargere con il pangrattato. Poggiare su una teglia e cuocere in forno a 200 gradi per cinque minuti finché è dorato.
per sei persone 

martedì 16 ottobre 2012

UN'OSTRICA OSTINATA

I fondamentali in cucina: grembiule, coltello di ceramica, frusta, spatola, padella con fondo spesso.


Ho cominciato a cucinare tardi, quando sono andata a vivere da sola dopo i vent'anni. Non provengo da  una famiglia di cuoche, mia mamma cucina molto bene, ma non ha mai fatto la pasta o i tortellini in casa, ha sempre trovato un fantastico posto dove li facessero per lei. Quando vivevamo all'estero c'era sempre la bottega di questo o quell'altro immigrato che aveva il necessario per trasformare una cena normale in una cena sublime. Devo ammettere che mia mamma aveva, e ha, molta fantasia in cucina e ha sempre proposto ricette diverse e sfiziose alle sue cene con gli amici. Si è anche trovata a dover fare cene Kasher, Vegetariane, senza maiale, senza pesce, insomma è stata un'ottima casalinga brava ai fornelli. Le nonne erano entrambe un disastro dietro ai fuochi, avevano una piccola infilata di ricette che andavano alla grande, ma lì si fermavano. Celebri le squisite minestrine di dado di mia nonna paterna e il budino di cioccolato di mia nonna materna. Quel budino aveva un sapore particolare, un retrogusto che non sono mai riuscita a riprodurre, anche perché io non ho mai bruciato il budino sul fuoco, come si ostinava a fare la mia adorata nonna. Ah, i sapori dell'infanzia che ti mancano. La bisnonna paterna, però, era una grandissima cuoca, sopraffina, di quelle che basta che guardino negli occhi un ingrediente perché quello cominci a conversare con loro. Non l'ho mai conosciuta, ma i suoi piatti in famiglia sfiorano la leggenda. Era gelosa delle sue ricette e quando entrava in cucina tutti dovevano uscire. Quello col cibo era un dialogo con due soli partecipanti, quasi un monologo. Mia madre è riuscita a carpire alcune ricette della bisnonna, coccolandola in ogni modo, blandendola e minacciandola, alla fine ha ottenuto qualcosa in gran segreto. Io ho imparato a cucinare da sola, a istinto, ho bruciato svariati sughi, ho fatto delle paste sfoglie disgustorse, ho servito polli semi crudi sostenendo, per orgoglio ferito, che la ricetta li voleva proprio così, ho presentato spaghetti alla carbonara non commestibili (vedi Due Spaghi a Londra nel blog). Però ce l'ho fatta, sono riuscita a servire cene gradevoli quasi subito. Forse, per una botta di fortuna per me inconsueta, qualche gene della nonna bis è finito tra i miei e saltella allegramente quando vede una cucina. Comunque, ad un certo punto della mia carriera culinaria ho deciso di andare a scuola di cucina, perché come in tutte le cose bisogna imparare la tecnica e le basi per spiccare il volo. 
Mi trovavo all'estero, a San Paolo,  passeggiavo tranquilla quando mi sono imbattuta in una deliziosa villetta degna di Hansel e Gretel. In quella casetta di pan di zenzero, stretta tra i grattacieli della via, si trovava una magnifica scuola di cucina. Tra gli insegnanti c'erano anche gli chef più alla moda e quotati della città. E' stata la mia seconda casa per tutti gli anni che ho vissuto lì e ho imparato a fare il pane, i croissant e i biscottini da uno dei grandi pasticceri della città; i dolci, di qualsiasi tipo, per me non hanno più segreti grazie alla bravura della mia insegnante Mara Mello (trovate la ricetta dei tartufi di cioccolato che mi ha insegnato più indietro nel blog); lì ho imparato a fare un uovo fritto da manuale, ma anche una Terrine de Foie Gras da urlo e, un intero menù degno di una Principessa (in questo caso Grace di Monaco, come insegnante quello che era stato il suo chef personale). Mi sono divertita come una pazza, ho infilato le mani in pasta, mi sono sporcata di cioccolato, ho steso focacce, ho girato salse, ho fatto impazzire una maionese che ho imparato a recuperare; ho tagliato Sushi, ho affettato arrosti cotti da me, ho cucinato con qualsiasi condizione atmosferica, con qualsiasi umore, durante la stagione delle piogge, d'estate, ma durante il Carnevale no, perché in Brasile il Carnevale è sacro e tutto si ferma.  Sono stata un'allieva modello, assidua e studiosa, forse un filo secchiona, ma c'è un episodio che ha fatto scalpore e ha marcato la mia permanenza nella scuola.
Era una delle prime lezioni dal titolo accattivante: Tecniche e Combinazioni di Sapori. Una di quelle lezioni che formano la base della tua esperienza culinaria, che ti insegnano la differenza tra cucina casalinga e cucina professionale. Questa era senz'altro ispirata alle lezioni del Grand Diplome del Cordon Bleu, la Scuola di cucina con la s maiuscola, visto che una delle insegnanti proprietarie era diplomata lì.  Descrivo fedelmente quanto è successo.
L'aula era sempre la stessa: grande e spaziosa, al centro la grande cucina con gli sgabelli intorno e il piano per appoggiare il quaderno degli appunti. Quel giorno, in cattedra, e cioè dietro alle grandi bocche di fuoco, quei fornelli professionali che mi hanno sempre fatto tanta invidia, c'erano la direttrice con uno chef, il nome ricamato sulla giacca che non svelerò. Uno chef emergente, che però aveva già al suo attivo un paio di ristoranti di successo a suo nome. Posso senza dubbio dire che era un vero genio della cucina, nonché un gran bel pezzo di gnocco. Alto e sexy, magro, un tatuaggio sull'avambraccio, la barba rossiccia che non vedeva il rasoio da almeno tre giorni e senz'altro fornito di una tartaruga da mettere in mostra dietro al grembiule. La mia amica ha commentato qualcosa tipo "A letto senza cena, ma col dessert", un'affermazione che mi ha trovata perfettamente d'accordo. Quel giorno eravamo frizzantine, c'è poco da dire. Lui ha iniziato la lezione parlando di abbinamenti, di ingredienti che andavano particolarmente d'accordo, di altri che si respingevano. Noi abbiamo preso appunti come diligenti scolarette e abbiamo inframezzato le pause con commenti piccanti su cosa avremmo voluto fare con lo chef dopo la lezione. Dalle nostre labbra uscivano cose tipo "noi facciamo parte degli ingredienti che attraggono", "fai di me il tuo ammazza caffé" e eleganti amenità simili. Rigorosamente in italiano. Poi è arrivato il momento di lavorare l'ingrediente protagonista del primo piatto. Le lezioni si dividevano in due: prima la dimostrazione dello chef e, poi,  la pratica ai fornelli personali disposti intorno all'aula con supervisione dello chef medesimo. Quel giorno il primo piatto era un'ostrica cruda con un abbinamento di sapori particolari. Lo chef ha mostrato come aprire l'ostrica: bisogna trovare il "muscolo" che sta nella parte corta e piccola della conchiglia, appoggiare il coltellino, inserirlo, recidere il muscolo con un colpo secco e aprire le valve facendo attenzione a non disperdere il liquido. Facile. Mica tanto. Ogni allievo doveva aprire la sua ostrica e insaporirla con le quantità stabilite di ingredienti. I primi allievi cominciano, apertura perfetta, qualche intoppo, ordinaria amministrazione. Io sono tra gli ultimi, subito prima della mia amica. Lo chef è accanto a me. Coltellino, ostrica, legamento, apro con successo. Non mi pare vero. Lo chef mi sorride, amabile e un po' ammiccante annuisce. E' decisamente attraente e io sorrido timidamente, ma non troppo. E' il turno della mia amica, infila il guanto di maglia di ferro, posa delicatamente l'ostrica sul palmo armato, poggia il coltellino sull'ostrica e si appresta a eseguire l'apertura. Lo chef si avvicina, si avvicina molto, lei sente il calore del suo corpo vicino al suo, lo ha fatto con tutti. Intendo avvicinarsi, ma non così vicino. Lei si agita, il coltellino scappa, scivola e va a rigare la parte superiore del guscio. L'ostrica, avvertita della fine imminente, si chiude e non accenna a rilassarsi. La mia amica si gira, guarda lo chef, lui dice: prendine un'altra. Lei ne prende un'altra, lui si riposiziona vicino a lei che riprova. Niente, fallisce. Lui si mette dietro di lei e guida la sua mano con la sua per spiegale come si fa. Annuisce, visibilmente agitata per via del contatto fisico. Prende un'altra ostrica. Riprova. Fallisce. "Brutta bastarda di un'ostrica", dice a mezza voce. La sento e sorrido. Lei è nervosa, perché non riesce ad aprire l'ostrica e perché  lo chef è troppo vicino. "Non essere nervosa, in cucina ci vuole pazienza" dice lui piano. Lo dice in italiano perfetto, lei si gira e arrossisce con violenza, lo guarda interrogativa "E sono libero stasera per cena", sorride lui ammiccando a tutte e due. Io mi vergogno come una ladra, nessuno ha capito cosa sia successo. Lo chef parla italiano. Dall'agitazione la mia amica fa una leggera pressione sull'ostrica, trova il punto esatto e finalmente la brutta bastarda si apre. Lui le mette una mano sulla spalla. Brava, in cucina ci vuole pazienza. Lei quasi sviene. Lui è un po' lumacone, giusto un po'.

Come è andata a finire? Ma cosa avete capito... ci ha invitate al ristorante coi nostri mariti e siamo diventati amici. E alla lezione successiva ci ha presentato suo figlio.
Certo, resta sempre un gran bel pezzo di gnocco.


P.S. Lo chef parlava perfettamente l'italiano perché ha lavorato per due anni a Milano, nelle cucine di uno dei nostri grandi chef. Posso tranquillamente affermare che, oltre ad essere un grande gnocco, è anche un grande chef a sua volta: è nella classifica dei primi venti al mondo.



sabato 13 ottobre 2012

SUGO DI ACCIUGHE, PINOLI E FINOCCHIETTO


Si tratta di una pasta con le sarde, in effetti, ma non ditelo a nessuno. Tra l'altro la potete fare tranquillamente anche senza il pesce, cari amici vegani, seguite tutto il procedimento escludendo le acciughe e aggiungendo un po' d'acqua

400 gr di alici fresche – una cipolla – 40 gr di uvetta – 30 gr di pinoli – un paio di rametti di finocchietto – un pizzico di stimmi di zafferano – olio sale pepe

Pulire le acciughe, lavarle e asciugarle. Far soffriggere le cipolla tritata in un tegame con 2 cucchiaio di olio, unire le alici, lo zafferano, il finocchietto tritato fine e l’uvetta, far insaporire e regolare di sale e pepe. Cuocere a tegame scoperto per 10 min. Far tostare i pinoli a secco in un tegamino. Cuocere la pasta in acqua con finocchietto, scolarla. Condire con il sugo, i pinoli e servire subito.
per quattro person


A PRESTO

Non  sono sparita, ho solo fatto un pisolino lungo una settimana. Adesso sono bella fresca e ci leggiamo la prossima settimana. Intanto vi lascio una ricetta per il fine settimana.



sabato 6 ottobre 2012

QUATTRO QUARTI (QUATRE QUARTS) - PLUM CAKE SEMPLICE

Il Quatre Quarts è un classico Plum Cake francese, basico e semplicissimo, senza fronzoli. A me piace servirlo con della confettura di fragole o albicocche, è delizioso, e così ho la versione di lusso del Pane e Marmellata della mia infanzia.  

175 g di farina 00 - 75 g fecola di patate - 250 g di burro - 125 g di mandorle o 125 di farina di mandorle - 5 uova - 200 g di zucchero a velo più un cucchiaio - 3 cucchiaini di lievito per dolci in polvere - un cucchiaio di succo di limone

Tritare le mandorle finissime. Setacciare la farina, la fecola e il lievito. Nel mixer lavorare a crema il burro con lo zucchero, quando è bello spumoso, sempre con le fruste in azione, incorporare i tuorli uno alla volta senza lavorare troppo il composto. Unire le farine e le mandorle, lavorando son una spatola affinché non si formino grumi. Montare gli albumi a neve fermissima insieme al succo di limone e unirli al composto mescolando dal basso verso l'alto facendo attenzione a non smonatarli. Versare in uno stampo da plum cake da 24/26 cm, imburrato e foderato di carta forno. Cuocere il forno a 200 gradi per 50/60 minuti. Se dovesse cominciare a bruciare la superficie coprire con carta forno. Far raffreddare sulla gratella.
per sei/otto persone

P.S. Esistono degli speciali stampi di carta perfetti per i Plum Cake e il Quatre Quarts, sono l'ideale perché permettono di avere un dolce dalla forma perfetta, cosa che non accade con la carta forno. 

venerdì 5 ottobre 2012

POLLO AL LIME E LIMONE

Chiunque segua il blog conosce la mia passione per gli agrumi, mi piacciono in qualsiasi, come si suol dire, salsa. Questa è una ricetta che ho trovato su una rivista francese molti anni fa, continuo a farla senza averla modificata di una virgola. E' buonissima e mi piace servire il pollo, nella versione calda, con un bel puré di patate bello "spumoso" di quelli che ci vuole un bel po' di olio di gomito per "montarlo"; nella versione fredda con delle belle patate bollite.  

1 pollo tagliato a spezzatino (un pollo intero, oppure cosce e petto disossati, oppure solo petto o solo cosce, disossati, come più vi piace) – 2 piccole cipolle bionde – 2 lime (la scorza di uno) – 2 limoni (la scorza di uno)– 5 cucchiai di olio – 1 cucchiaio di sale grosso – una macinata di pepe nero – zafferano


Mescolare in una ciotola il succo di un lime e un limone con tocchetti di un altro limone e un altro lime; aggiungere una bustina di zafferano, le cipolle tagliate a spicchietti – l’olio, il sale e il pepe, mescolare e aggiungere il pollo senza pelle. Lasciare marinare al fresco per un’ora, versare in una pirofila con tutta la marinata e cuocere in forno a 180° per 40 minuti. Prima di servire cospargere di scorza di  lime e limone. Servire caldo o freddo. 
per quattro persone 

giovedì 4 ottobre 2012

MINESTRA STRACCIATELLA

Uno dei grandi classici della mia infanzia, mia mamma me la preparava sempre. Aveva imparato la ricetta quando abitavamo a Roma, infatti è una minestra tipica romana, e ha continuato a farla per molto tempo. Adesso la faccio io quando ho voglia di coccole infantili. Tra l'altro è un piatto, oltre che delizioso, nutriente ed economico e in questo periodo di crisi non è cosa da poco. 

1 litro di ottimo brodo di carne o vegetale - 3 uova - 4 cucchiai di parmigiano grattugiato - noce moscata - prezzemolo tritato o erba cipollina o qualsiasi erba vi piaccia - sale pepe
Alice che mi aiuta nel lavoro fotografico 

Mettere le uova in una ciotola, aggiungere il formaggio, la noce mostrata, un po' di sale e il prezzemolo. Sbattere come per fare la frittata. Mettere il composto di uova nel brodo bollente e contemporaneamente sbattete con la frusta per ottenere un effetto "stracciato". Far cuocre due/tre minuti e servire. Si può aggiungere ancora del parmigiano grattugiato.
per quattro persone 

mercoledì 3 ottobre 2012

GNOCCO FRITTO

Questa settimana erano previste ricette diverse abbinate ad un racconto diverso, visto l'eccezionalità della cosa andiamo, come dire, random. Ogni giorno sceglierò una ricetta tra quelle che preferisco. Oggi, visto la tristezza che mi è presa dopo la notizia di lunedì 1 ottobre, la fantastica ricetta dello Gnocco Fritto. Consolatorio, colesterolico, pieno di calorie e non esattamente salutare, ma buonissimo con il prosciutto crudo o salame. l'ideale nei momenti di tristezza. Qui fornisco la ricetta originale, cioè con la pasta fritta nello strutto, volendo si può sostituirlo con l'olio (vedere la sezione "Una frittura perfetta" nel blog) 

500 g di farina 00 - 25 g di lievito di birra - 1 dl di latte - 1 etto di strutto - 1cucchiaio di olio di oliva - un pizzico di sale

Sciogliere il lievito nel latte tiepido. Mescolarlo alla farina messa a fontana con l'olio, il sale e acqua sufficiente ad ottenere un impasto morbido. Aggiungere l'acqua a poco a poco, in modo da non avere una consistenza appicciocosa. Far lievitare coperto dentro ad un recipiente per circa un'ora. Stendere la pasta e tagliarla a rombi, friggerla nello strutto caldo per cinque minuti o finché non sono dorati e gonfi. Per scolarli, metterli dritti uno di fianco all'altro. Servirli caldi.
per quattro persone 


lunedì 1 ottobre 2012

NOTIZIE E SENTIMENTO

Questa settimana era prevista un'altra storia, era divertente, una delle mie prime lezioni alla scuola di cucina. Ma stamani ho aperto il giornale on line e ho visto la notizia, nulla di grave, nulla che cambi le sorti del mondo, ma ha cambiato la mia giornata. Racconterò come ho vissuto questa notizia.



Come tutte le mattine da tutta la vita adulta, considerando età adulta il compimento dei sedici anni, ho aperto il giornale. Un tempo uscivo presto e prendevo la mia copia cartacea all'edicola, mi piaceva annusarla la mia copia, perché la carta di giornale e l'inchiostro messi insieme hanno un odore magnifico. Forse è stato per questo che ho fatto la giornalista, per l'odore del giornale fresco. Non divaghiamo. Oggi la copia cartacea la compro più tardi, il primo gesto della mia giornata, dopo la colazione, è andare al computer con la tazza fumante di caffé della moka molto, molto lungo e aprire i giornali on line. Primo "la Repubblica", secondo "Corriere della Sera", terzo la "Stampa", quarto "il Giornale", da lunedì scorso anche l'"Huffington Post" italiano (prima era l'edizione americana) . Sorseggio il caffè e leggo. Non leggo tutti i giornali, semplicemente scorro i tutti i titoli, entro in un paio di blog/forum, mi soffermo sugli articoli che mi interessano di più, guardo le gallerie fotografiche più interessanti, controllo che rilievo è stato dato alle notizie, quali sono e perché. Una rassegna stampa come quelle che facevo quando lavoravo in redazione, mi piace, è un modo interessante di cominciare la giornata. Capisco che a nessuno di voi interessi la mia routine quotidiana, ma serve per capire cosa è successo oggi e del perché ha modificato il programma che avevo scelto per il blog questa settimana.
Quella che mi è venuta sotto gli occhi questa mattina è una notizia abbastanza comune ultimamente, in questi anni di crisi, di nuove povertà, di un'economia che non è esattamente sana, di classe politica litigiosa e poco attenta alle esigenze del paese. Ha chiuso una fabbrica, la proprietà a firmato coi sindacati la messa in mobilità degli operai, il grande capannone dove si trovava la produzione fa gola agli immobiliaristi. Triste, ma nulla di diverso dalle notizie che corrono sulla carta stampata e il web negli ultimi tempi. Mi colpisce sempre sapere che chiude una piccola o grande fabbrica, significa persone senza lavoro, famiglie in difficoltà, un pezzo di una storia che se ne va. Fa male. Diciamo che oggi ha fatto più male, perché un pezzo della mia infanzia se ne è andato. La fabbrica che ha chiuso è quella della Galup, panettoni. Il panettone Galup è stato il primo Panettone basso, il primo ricoperto da una glassa alle nocciole fantastica e, il primo, con le mandorle incastonate nella glassa. Un sogno per me bambina. Era il Panettone che mio nonno aveva iniziato a comprare subito dopo la guerra, quando era tornato dalla prigionia in India, per la nostra famiglia l'unico Panettone esistente, ovviamente dopo il Pane del Marinaio, il dolce con la frutta secca tipicamente ligure, e che molti si ostinano a pensare come "il Panettone ligure". Il Pane del Marinaio non è un panettone, ma il Panettone Galup sì. Era Natale quando arrivava il Galup a casa, mio nonno se lo faceva spedire da Pinerolo, perché non era facile trovarlo dalle nostre parti. Ne ordinava tre o quattro per il periodo di Natale. Veniva tagliato in fette non troppo spesse, perché durante il periodo di Natale si mangiava molto e quindi una sottile fetta di Panettone era più che sufficiente come dessert. Io venivo invariabilmente sgridata, perché di nascosto aprivo la confezione e piluccavo tutte, ma proprio tutte, le mandorle della copertura, lasciando gli altri con un palmo di naso. Un vizio questo che mi è rimasto ancora oggi, adoro piluccare le mandorle del Galup. Quest'anno però non piluccherò nessuna mandorla da nessun Galup, la fabbrica ha chiuso e non ci sarà più nessun panettone da mangiare. Certo esistono le copie, quelli che sono venuti dopo e hanno abbassato il panettone milanese e ci hanno messo su la glassa. Non hanno lo stesso sapore. Certo potrei mangiarmi una Veneziana che però, oltre alle mandorle e alla glassa, ha un rivestimento di granella di zucchero e solo canditi nell'impasto. Certo, da quando vivo a Milano, e sono molti anni, adoro anche il Panettone milanese, buonissimo, che compro nella pasticceria vicino a casa, ma il Galup è il Galup. Hanno chiuso un pezzo della mia infanzia. E sono tristissima.


P.S. Dalla prossima settimana questo blog tornerà alla leggerezza che lo caratterizza. Promesso.