mercoledì 30 novembre 2011

CHIMICHURRI

Ripropongo la ricetta del chimichurri presentata quasi un anno fa, repetita iuvant. 
Il chimichurri è la salsa che accompagna i vari tagli di carne, cotti un po' più a lungo che da noi. Il nostro "al sangue" non corrisponde al loro. Ogni famiglia ha la sua versione della salsa e la propone con diversi gradi di piccantezza, sapidità, acidità. Non esiste una ricetta del chimichurri codificata e nel caso esistesse, ognuno aggiunge la spezia o l'erba che preferisce per avere la migliore del vicinato.  Questa è la mia versione, in  generale gli argentini non amano molto il piccante, io si. Il peperoncino è dunque un optional se volte un sapore vicino più vicino all'originale. 

125 ml di olio di oliva - 60 ml di aceto - una cipolla  rossa tritata - un peperone rosso tagliato a dadini- un grosso mazzo di prezzemolo tritato - un cucchiaio di origano fresco tritato - un cucchiaino di origano secco - un cucchiaino di paprika dolce - uno spicchio d'aglio tritato - un pizzico di peperoncino in polvere o un piccolo peperoncino fresco affettato - un cucchiaino di sale - pepe 


In una ciotola di ceramica sbattere bene l'aceto e sale, finché non si sia sciolto, aggiungere gli altri ingredienti ed infine l'olio.  Lasciar riposare per alcune ore prima di servire.

P.S. E' anche un'ottima marinata per la carne, soprattutto per quella di pollo, oppure si possono condire le verdure alla piastra o bollite..

martedì 29 novembre 2011

DOMENICA PORTEÑA

Era inverno, nel nostro emisfero. Era piena estate nell'emisfero australe, dall'altra parte del mondo. Il volo era stato stancante, dalla Turchia all'Argentina avevamo cambiato aereo una volta sola, ma l'attesa era stata eterna. Eravamo arrivati all'alba di un sabato, la nostra amica che ci aspettava fuori dal controllo passaporti con un cartello di benvenuto ed un sorriso smagliante da tarda mattinata. Era la prima volta che ritornavamo nel paese dove avevamo vissuto per tre anni. La felicità ci riempiva il cuore, vedere i nostri amici ci scaldava l'anima, essere turisti in quella che consideravamo la nostra seconda casa un'allegra alternativa. Faceva caldo, ma non troppo, di solito in quella stagione l'umidità tocca punte da vaporiera e il sole picchia sulla tua testa come un fabbro sull'incudine. In quei giorni un po' di vento da sud aveva rinfrescato l'aria e pulito il cielo. I cieli porteñi sanno essere di un blu accecante, appena solcati da nuvole dense e filacciose come cotone, la luce porteña è limpida, trasparente, vitale. Quello era uno di quei giorni, limpidi e lucidi. Eravamo stanchi, le ossa accartocciate dal viaggio, i muscoli tesi dall'ansia di arrivare. Solo una notte di sonno ci avrebbe riportati al nostro stato normale, ma era mattina e avevamo tanti amici da incontrare. Sarebbe stata una lunga giornata. 
Sarita, la mamma della nostra amica, ci ospitava, con la sua delicata, ma decisa presenza che era una discreta assenza. Stare da lei era come stare a casa dalla mamma, col vantaggio che non ti avrebbe mai imposto orari di visita o pranzo. Una casa magnifica, elegante e sobria nella quale ci aspettava una camera confortevole con un servizio da cinque stelle, migliorato dall'affetto.  Le nostre colazioni di chiacchiere con la padrona di casa erano un momento perfetto per incominciare la giornata. Il più bel bed and breakfast della città sarebbe stato nostro, e solo nostro, per cinque giorni. Purtroppo nessun altro potrà avere il privilegio di soggiornarvi, nessuna guida lo citerà, nessun passaparola vi darà il numero di telefono, la padrona di casa ospita solo noi e pochi altri, di solito familiari in visita. Ci aspettava con la porta aperta con quello che sarebbe stato il secondo di molti abbracci che avremmo ricevuto quel giorno.
Finalmente la notte era arrivata e il cielo ci aveva regalato un notte color dell'inchiostro con uno spicchio di luna crescente e milioni di stelle. Non capisco come mai, nonostante l'inquinamento luminoso, a Buenos Aires si vedono sempre tante stelle, come se il cielo fosse più vicino alla terra. Il giorno dopo ci avrebbe aspettato il pranzo di famiglia. Un pranzo porteño con la nostra famiglia locale, perché eravamo stati adottati non solo da Sarita, ma anche dalla famiglia di altri nostri amici. Ci piace pensare di avere tanti genitori, un po' argentini un po' italiani, di religioni e abitudini diverse. Un pranzo porteño è una cosa seria, per professionisti degli incontri familiari e nessuno di noi è un mai stato un dilettante in questo senso. La notte avrebbe tolto la stanchezza e ci avrebbe preparati all'evento. 
Dopo il sonno ristoratore, una colazione degna di Pantagruele in un momento di appetito, la domenica mattina siamo saltati in macchina e ci siamo diretti nella casa che ci avrebbe ospitato per il pranzo. 
In mezzo al prato splendeva azzurra la piscina, dove già sguazzavano i più piccoli di famiglia, un set di bambini di età variabile tra i quattro e i dieci anni; la nostra colonna sonora era assicurata. Davanti ad una parilla, una griglia in muratura, doppia, si dava da fare il fuochista, da una parte fuoco vivo, dall'altra brace  già perfetta per cucinare. Una parrila doppia non è la normalità, è un 'eccezione per professionisti della griglia familiare. Appunto il nostro caso. Baci, baci, baci, abbracci, abbracci, abbracci, ma ragazzi come vi trovo bene, ma Enrique come sei informa, oddio i bambini come sono cresciuti, vieni qui Sofi ad abbracciare la zia; bacio umido di piscina e affetto. Ci infilano in mano un bicchiere di vino bianco, gli argentini non sono specialisti nel produrre i bianchi, i rossi casomai, ma i bianchi, sono da '"fa niente bevo lo stesso". Sulla parilla, sopra la brace grigio rossastra, sfrigolavano i chorizos, salamini tra la salsiccia e il salame, buoni, buoni, buoni; di lato panini bianchi tagliati a metà si scaldavano prima di essere addentati farciti col salamino grondante grasso. Choripan, così si chiama questo sublime momento che da il via al pranzo, di solito verso l'una. Perché prima è ancora mattina presto in Argentina, ora di fare colazione. Tre bicchieri di vino, tre choripan, una morcilla (sanguinaccio) e un'ora dopo, una campana ha annunciato che era ora di mettersi a tavola. Sui tavoli imbanditi sotto il grande albero sono arrivate le grandi ciotole con quattro tipi di insalata diverse: patate e maionese, grande protagonista della cucina argentina, foglie varie e lo ammetto non mi ricordo più che cosa ci fosse nelle altre ciotole, se non tanta bella roba, anche buona. Sulla parilla c'era ogni ben di dio. Le portate hanno un ordine abbastanza codificato: prima il choripan e la morcilla, poi le insalate, che non sono mai piatti leggerini, poi le carni, che a loro volta hanno un'ordine di precedenza sulla tavola. In questo pranzo familiare sono state rispettate tutte le regole e gli ordini di arrivo. Intanto, tra un choripan e un tuffo, i piccoli non erano paghi e schiamazzavano nel tavolo dei bambini, uguale a quello degli adulti solo di dimensioni ridotte. Gli adulti, già leggermente alterati dall'aperitivo iniziavano a tracannare un bel rosso corposo mentre ingurgitavano la prima portata di carne, quella che prende il nome dalla griglia: la parilla. Vegetariani, e soprattutto vegani, che senz'altro al choripan saranno stati già orripilati, astenersi dal contiunare la lettura. Si tratta delle interiora, di tutte le interiora, tra cui fegato, animelle, rognone, intestini passati sulla griglia e serviti su una griglietta apposta. Il banchetto argentino inizia da qui, nel rispetto della tradizione dei gauchos che uccidevano l'animale e lo mangiavano tutto. Esiste una tradizione, che forse non esiste più, nella Pampa, quando si lavora e si sta fuori per molti giorni, perché le proprietà sono enormi, si prende una delle vacche del pascolo e la si macella. La si fa cuocere aperta, steccata su un fuoco di braci e si mangia ciò di cui si ha bisogno il resto lo si lascia lì, steccato, in attesa di un viandante o qualcuno che deve spostarsi nella Pampa infinita, avrà da mangiare e sarà suo diritto servirsi. Quel pranzo era speciale, era una sorta di ritorno del figliol prodigo che è stato via troppo a lungo, e allora tutte le tradizioni delle farmiglia sono state rispolverate. Subito dopo la parrilla è stato servito il pollo, poi è stata la volta delle costine di maiale, e poi i tagli di carne: asado de tira (costato), lomo (filetto), bife de chorizo (controfiletto, ma non proprio) e c'è da perderci la testa con tutti i tagli che sono passati sotto le nostre mandibole in continuo movimento. Tutto condito e aromatizzato con il chimichurri, la salsa a base di olio, aceto, prezzemolo e aglio (per la ricetta vedi nel blog). Il vino scorreva a fiumi e intanto la luce si faceva più bassa e morbida, le risate degli adulti andavano a mescolarsi agli strilli dei bambini tornati in piscina a sguazzare allegri. Dall'inizio del pranzo di ore ne erano passate quattro ed era arrivato il momento dei dolci, che in Argentina sono veramente dolci. Torte con ripieno di dulce de leche, la marmellata di latte che sa di caramella mou, un vero momento consolatorio nelle giornate tristi; crostate con marmellate di fragola e amarena raccolte dall'albero del giardino, flan (creme caramel), mousse di cioccolato fatta apposta per me, che amo alla follia questo dolce. Il caffè avrebbe chiuso il pranzo. Mentre il sole tramontava, dorato sull'acqua della piscina, noi, l'anello di congiuzione tra i più piccoli e io loro nonni, seduti sulle sdraio ci passavamo il mate, lo ciucciavamo caldo, amaro, aromatico con la bombilla e discutevamo delle vacanze che ci aspettavano. Il mate è una tradizione che rappresenta il paese forse più ancora della carne, persino Ernesto Guevara, il rivoluzionario Che, non ha rinunciato a bere il suo mate durante le battaglie, ci sono molte foto che lo testimoniano. Il mate passava di mano in mano, l'alcol e il cibo, ma per noi soprattutto il fuso orario, ci avevano stroncato e alcuni di noi russavano forte, tanto forte da ridurre al silenzio i più loquaci. Il mate era rimasto a me, avevo riempito di acqua il contenitore (una piccola zucca, di solito) , e aspettavo che l'infuso prendesse sapore con il sole ormai basso sull'orizzonte, le ombre lunghe degli alberi e una sensazione di beatitudine un po' alcolica. 

P.S. non chiedetemi come mai ci siano tre diversi caratteri con tre diverse dimensioni, secondo me il computer si è sbronzato solo a farsi scrivere addosso questo racconto, e con tutto quello che ha mangiato, poi... 

lunedì 28 novembre 2011

LATTE ALLA MANDORLA

Tanto per tenervi coccolati, caldi e occupati nell'attesa del nuovo racconto. 


150 ml di latte - 1 cucchiaio di mandorle in polvere - la punta di un cucchiaino di essenza di vaniglia di ottima qualità

Far scaldare a fiamma bassa tutti gli ingredienti in una casseruola con il fondo spesso. Lasciar sobbollire per un minuto o due. Tolto dal fuoco far intiepidire e versare in un bicchiere grande. Volendo si può zuccherare, ma io lo preferisco senza nulla. Una vera leccornia invernale.
per una persona

PROSSIMAMENTE

Nei prossimi giorni vi prometto avventure speciali in un paese esotico.

sabato 26 novembre 2011

BUDINO AL CIOCCOLATO CON AMARETTI


Ai tempi del racconto mangiavo quantità industriali di latte con il cacao dolce, Nesquik per non fare pubblicità, e biscotti, Petit Beurre nella fattispecie. Tutto ciò che era fatto di latte e cioccolato mi faceva impazzire, da sempre. Il budino è il ricordo di mia nonna materna. Le mie nonne erano entrambe un disastro in cucina, ma facevano alcuni piatti benissimo e naturalmente erano i miei preferiti. La nonna materna era specializzata in minestre e budini, il giorno che ho scoperto che li faceva col preparato Elah sono rimasta di stucco; anche perché è successo meno di dieci anni fa, me lo ha confessato in un momento di debolezza e un ricordo d'infanzia si è infranto: la dolce nonnina del canarino Titti, questa era mia nonna, intenta a preparare il budino per la sua nipotina. C'è di che avere traumi postumi, anche se lo arricchiva con amaretti e panna montata.

1 lt di latte - 200 g di cioccolato fondente - 150 g di zucchero - 100 g di farina - 100 g di burro - 125 ml di panna - 4 o 5 amaretti duri 

Preparare un bagnomaria. Scaldare il latte. Sulla casseruola con l'acqua in leggera ebollizione,  mettere una ciotola con il burro  e il cioccolato tagliati a dadini, far fondere. Quando il composto di cioccoalto sarà sciolto unire la farina amalgamando bene. Trasferire in una casseruola e aggiungere subito il latte bollente, far cuocere a fuoco basso finché non si sia addensato, abbassare la fiamma e far sobbollire per qualche minuto. Versare nello stampo da budino, far raffreddare e mettere in frigo a rassodare per almeno due ore. Per servire: Sformare il budino, montare la panna e distribuirla sul budino con un cucchiaio o un sac a poche, sbriciolare gli amaretti e spolverarli sulla panna.  

P.S. Questa è la mia versione fatta con gli ingredienti di alta qualità, buonissimo. C'è da dire che però il sapore di quello di mia nonna è un ricordo indelebile. 

venerdì 25 novembre 2011

MOUSSE AL CIOCCOLATO BIANCO

Per ricordare la nebbia e la sua sofficità, oggi vi do la ricetta di una mousse leggera e nivea. Un po' dolce per i miei gusti, ma ogni tanto mi piace servirla e, soprattutto, mangiarla. Di solito nei momenti di tristezza. Tassativo usare un cioccolato bianco di altissima qualità. 


200 g di cioccolato bianco - 60 g di zucchero a velo - 200 ml di panna freddissima - 3 albumi a temperatura ambiente - pistacchi tritati

Preparare in una casseruola un bagnomaria, mettere il cioccolato bianco tagliato a dadini in un contenitore di metallo e collocarlo sopra la casseruola senza che l'acqua tocchi il fondo. Far sciogliere completamente. Lasciar raffreddare, senza che si indurisca. Con l'aiuto di un mixer montare a neve ferma gli albumi. Montare la panna e poi aggiungere lo zucchero a velo a piccole cucchiaiate. Mescolare il cioccolato e gli albumi dal basso verso l'alto facendo attenzione a non smontarli. Unire la panna montata nello stesso modo. Mettere nelle coppette di servizio per almeno tre ore. La mousse si può fare la mattina per la sera, ma non si conserva più a lungo di così. Servire spolverato di pistacchi.





giovedì 24 novembre 2011

COCKTAIL MIMOSA

Nel racconto citiamo il succo d'arancia e allora vi regalo questo cocktail che va bene come aperitivo, ma soprattutto se fate un brunch: è moderatamente alcolico e si ha l'impressione di bere qualcosa di sano per via del succo d'arancia. Grande bugia, ma facciamo finta di crederci. 


25 ml di cointreau o triple sec - 50 ml di succo d'arancia - 100 ml di spumante, Prosecco o, se volete scialare, Champagne - una rotella d'arancia per decorare

Mettere il liquore e il succo d'arancia in una flute o un bicchiere, mescolare bene, aggiungere il vino e mescolare ancora. Decorare con la rotella d'arancia. Servire.
per un bicchiere


mercoledì 23 novembre 2011

POP CORN ALLE SPEZIE

Il pop corn è bellissimo da vedere, una montagna di fiocchetti di neve profumati e caldi che ti fanno pregustare la Coca Cola che ci berrai dietro. Ah, quante belle calorie in un colpo solo. In sé non è eccessivamente calorico, lo diventa se ci aggiungiamo ingredienti vari, quindi mangiamolo naturale con solo un po' di sale...ma perché? Una volta che abbiamo trasgredito è molto più godurioso farlo per bene. 

125 g di mais per pop corn - 2 cucchiai di olio - 50 g di burro fuso - 1 cucchino di paprika dolce - 1 cucchiaino di pepe di Cayenna - 1 cucchiaino di cumino in polvere - mezzo cucchiaino di aglio in polvere (facoltativo) - sale a piacere

In una grande casseruola mettere far scaldare l'olio e il mais, far scoppiare tutti i grani muovendo la pentola di continuo. In una ciotolina mescolare tutte le spezie e il sale. In una grande ciotola mettere il pop corn caldo e versare il burro sciolto, unire le spezie e mescolare finché tutto il pop corn non si coperto di burro e spezie. Servire subito.

martedì 22 novembre 2011

PATATINE CHIPS

Quelle che comprate nel sacchetto sono buone, alcune sono buonissime, quasi entusiasmanti. Quelle fatte da voi sono meglio, sono celestiali e facilissime da fare. Provate e mi ringrazierete. Io preferisco le patate rosse, ma potete scegliere quelle che più vi piacciono. Vengono bene anche con le patate dolci o americane. Può essere divertente farle anche con le patate a pasta viola (Vitellotte) e mescolarle con le altre, un tocco artistico in più.

5 patate - abbondante olio per friggere - sale

Lavate e spazzolate molto bene le patate. Con una mandolina o, in mancanza, un taglia tartufi, affettare le patate sottilissime. Metterle dentro ad uno scolapasta e sciacquarle sotto l'acqua corrente, questo servirà a perdere una bella percentuale di amido che le renderebbe molli dopo la frittura. Asciugarle bene e metterle a riposo fra due canovacci in modo da togliere più acqua possibile. Far scaldare l'olio in una friggitrice o, meglio, in una casseruola ampia dai bordi alti, il wok è perfetto. Portare la temperatura a 160 gradi, esiste uno speciale termometro che inserito nell'olio rileva la temperatura. Mettere le patate a friggere poche alla volta, scolarle bene su carta assorbente, salarle e farle raffreddare. Ripetere fino ad esaurimento delle patate. Si servono sia fredde che calde.
da una a quattro persone... dipende dalla golosità

lunedì 21 novembre 2011

DI BACI E NEBBIE

Amo la nebbia, la trovo romantica, avvolgente, confortante. Ho trascorso la maggior parte dei miei anni di formazione in un paese dove le nebbie iniziavano alla fine dell'estate e finivano all'inizio della primavera. La nebbia rappresenta quel che era per Holden Caufield lo stagno delle anatre di Central Park, lui si chiedeva dove andassero le papere d'inverno; ecco, io mi sono sempre chiesta dove sparisse la nebbia d'estate, tanto l'amavo e la vivevo. La nostra casa si trovava in mezzo ai boschi in una piccola cittadina non lontana da Bruxelles. A parte il fatto che il Belgio è talmente piccolo che qualsiasi cittadina si trova "non lontana" dalla capitale. La casa era di mattoni rossi con grandi finestre aperte sui prati e sui boschetti di betulle - forse non ho detto che trovo molto romantiche anche le betulle - nel giardino sul retro c'erano una casetta per gli uccelli e tante piante. A partire dal mese di ottobre la casetta per gli uccelli spariva per giorni interi, ingoiata dalla nebbia soffice, densa e corposa come una meringa con la panna. Non si vedeva nemmeno la prima dalla di pietra del sentiero che conduceva fuori dal giardino, e che partiva dalla porta finestra della sala. Così, accoccolati e protetti dal guscio grigio e umido trascorrevamo le giornate. Giorni e giorni senza vedere il sole, in compagnia solo dell'aria che prendeva consistenza e spessore.  Certo, si andava a scuola, si lavorava, si faceva la spesa, si conduceva una vita normale, insomma, ma tutto ritmato dal silenzio ovattato e irreale di quelle nebbie cotonose che non ho mai più incontrato.
Era una serata autunnale, di quelle serate novembrine fredde e umide, da almeno una settimana le nostre giornate erano cotonose. Dalla mattina alla sera vivevamo immersi in una nebbia talmente fitta che avevamo  addirittura perso l'orientamento in casa. Fuori la temperatura era polare, dentro bollente. I miei genitori erano usciti e io avevo invitato un po' di amici a trascorrere la serata con me. Nel salotto di mia mamma si erano distribuiti una discreta quantità di adolescenti, più o meno brufolosi, di entrambi i sessi, tra cui quello che mi piaceva. Dire che mi piaceva è un eufemismo, davanti a lui il mio cervello si fermava e le mie gambe diventavano di gelatina e il mio stomaco si riempiva di insetti molesti. Sì, credo mi piacesse.
Gli adolescenti erano ovunque: spaparanzati sul divano, sdraiati a terra, seduti in due sulle sedie della cucina, in camera mia, nel bagno, in qualsiasi angolo della casa si poteva trovare un minorenne che chiacchierava e interagiva coi suoi simili.  Sgranocchiavano tutto quello che avevano saccheggiato nella dispensa fornitissima di mia madre: patatine chips, noccioline, pralines di pregio e da supermercato, caramelle morbide e dure, ma soprattutto pop corn - o come mi aveva corretto simpaticamente il maestro d'italiano: il granoturco scoppiato - che la mia amica preparava sul fornello, la metà dei quali finiva direttamente a terra creando un divertente effetto di neve croccante. La cosa più trasgressiva e forte che girava erano le bottigliette di Coca Cola e alcuni succhi di frutta. Qualcuno aveva lasciato una latta aperta di succo d'arancia per terra in cucina, un altro gli aveva tirato un calcio per errore e un po' di succo d'arancia si era sparso tutto intorno. Un bel vedere, pop corn e succo d'arancia sul pavimento bianco. Verso le dieci e mezza sarebbe partita una task forse di pulizia, che avrebbe lustrato dove avevamo sporcato; quella era l'unica condizione posta dalla mia ospitale genitrice. E pur di avere una casa a disposizione tutti ci prestavamo all'operazione lustra e brusca. Lo stereo urlava vari pezzi rock e la vicina non era molto contenta, batteva i pugni alla parete che divideva la nostra casa dalla sua almeno tre volte a serata ogni volta che avevo ospiti, quella sera aveva già esaurito le possibilità: cinque sessioni di pugni e di "Taisez-vous!" gridati a pieni polmoni (per chi non abbia un po' di immaginazione traduco: zitti!) ; nessuno l'aveva nemmeno degnata del solito urlo: "Ta guele!", un modo francofono inelegante e piuttosto maleducato di dire stai zitta, seguito da epiteti più o meno coloriti in due o tre lingue diverse. Dopo queste serate mia madre doveva fare opera di pubbliche relazioni e diplomazia, di solito quando riusciva a risolvere la questione era già arrivato il momento di un'altra seratona.
Era quasi l'ora di far entrare in  azione la task force e qualcuno aveva messo sul piatto un trentatré giri (questo racconto si svolge ai tempi di Carlo Cotica, quando esistevano solo i vinile e le cassette col nastro n.d.r.) di De André. Questo di solito segnalava l'attimo del pensiero e della malinconia, quando ci si doveva separare per andare a posare le ossa a letto, ché il giorno dopo c'era scuola. Era come la canzone che chiude le serate nei villaggi turistici, ma quella di solito è più allegra. Io guardavo sconsolata il pavimento della cucina, sarebbe toccata a me la pulizia del pavimento imbiancato dai pop corn schiacciati, a terra c'erano anche svariate chips rotte in mille pezzi, e le noccioline che Andrea aveva provato a mangiare afferrandole al volo con la bocca. Ero sola, gli altri erano tutti in giro per la casa, guardai il pavimento e, poi, fuori dalla grande finestra sopra il lavello. La nebbia era così fitta che sembrava avesse nevicato in orizzontale sulla finestra, c'era qualcuno riflesso nel vetro. Il cuore perse svariati battiti dopo aver fatto un paio di capriole nel petto. Era lui, quello che mi faceva venire le farfalle nello stomaco. Era fermo sulla porta e mi guardava, non credo fosse consapevole del suo riflesso nel vetro. Sorrideva. Si avvicinò alla padella e afferrò una manciata di pop corn ormai freddi, si sedette sullo sgabello arancione di fronte al tavolo, quello dove io mi sedevo tutte le mattine per fare colazione. Mangiava pop corn e io lo sentivo sgranocchiare dietro alla mia schiena. Ero un po' rigida ed impettita, in piedi in quella cucina. Non so cosa disse, so che mi girai e risposi qualcosa. Per tutta la sera era stato da altre parti, soprattutto dove non ero io. Aveva chicchierato, bevuto, mangiato e cantato, non necessariamente in quest'ordine, ma lontano, ben lontano da me. Io mi ero innervosita, ma in quel momento non riuscivo ad essere arrabbiata con lui. Mi guardava, e sorrideva, mi fece cenno di andare a sedermi sulle sue ginocchia. No, non ci vengo, dovrei avercela con te, non mi hai nemmeno guardata stasera. Mi ritrovai sulle sue ginocchia di sedicenne biondo, senza barba, e per niente brufoloso, in un nano secondo. La volontà è tutto nella vita. Io ero di traverso e vedevo tutto quello che succedeva in sala, gli altri erano lì che ridevano e chiacchieravano, godendosi gli ultimi istanti prima di iniziare a pulire. Io sentivo gli occhi di lui trapassarmi lo zigomo destro, sentivo un gran caldo e quando lui appoggiò la mano sul mio fianco abbracciandomi ebbi un sussulto. Con la mano libera mi girò il viso e posò le sue labbra contro le mie. Milioni di insetti molesti si scatenarono nella mia pancia, mi parve di sentire un ronzio forte nelle orecchie e anche un boato e uno scoppio. Stavo dando il mio primo bacio, non quella roba viscida e molle che ci eravamo scambiati il mio compagno di classe ed io per scommessa, no una roba vera, romantica, al ragazzo di cui, adesso lo so, ero perdutaente innamorta. Mentre mi baciava sospirai, un sospiro lungo intenso. Vorrei dire che il suo bacio sapeva di fragole e panna, di vino rosso e cioccolato, ma purtroppo sapeva più prosaicamente di pop corn. Dalla sala provenivano le note de "La canzone dell'amore perduto", quella che dice "l'amore che strappa i capelli è perduto ormai, non resta che qualche svogliata carezza e un po' di tenerezza". Ecco solo io potevo dare il primo bacio e cominciare una storia d'amore in una notte di nebbia, con una canzone che parla di un amore finito e di  baci mai dati, solo io posso ascoltare questa canzone e sorridere al ricordo del mio primo amore. Forse è per questo che adoro De André, e la nebbia. Per non parlare del pop corn.

domenica 20 novembre 2011

sabato 19 novembre 2011

CREMA DI YOGURT AL THE MATCHA E MACEDONIA DI MANGO

Facile, facile, esotico al punto giusto con sapori equilibrati e freschi, poco colesterolo e molto gusto. Ha il vantaggio di avere poche calorie. 


1 mango maturo sbucciato e tagliato a cubetti - 4 cucchiaini di zucchero - 100 gr di cioccolato bianco di ottima qualità tritato  - 350 di yogurt greco 0,1% di grassi - 1 cucchiaino di polvere di the matcha

Mescolare il mango con due cucchiaini di zucchero, lasciar macerare per 30 minuti. Far sciogliere il cioccolato a bagno maria, togliere dal fuoco e battere con una frusta per far intiepidire. Unire lo yogurt poco a poco. Dividere il composto in due ciotole piccole. In una ciotolina mescolare il resto dello zucchero con la polvere matcha  insieme a un cucchiaino di acqua per formare una pasta densa. Aggiungere il matcha in una delle due ciotoline di yogurt e mescolare bene. Mettere il mango in quattro ciotole di servizio. Fare un buco nello yogurt verde, aggiungere lo yogurt bianco e con un cucchiaino girare due volte per ottenere dei nastri di colore diverso. Mettere lo yogurt a cucchiaiate sopra il mango. Servire.
per quattro persone

venerdì 18 novembre 2011

OMELETTE SUPER AEREA CON ERBE E ZAFFERANO

Una ricetta facile e sfiziosa. Non bisogna essere dei grandi geni per fare un'omelette, basta un po' di manualità e tantissima fantasia. Vi lascio la ricetta base, sulla quale potete elaborare mille ricette e poi, a seguire, la ricetta del titolo.

BASE PER OMELETTE:

8 uova grandi - burro o olio - sale e pepe

Sbattere le uova con una forchetta o una frusta finché i bianchi e i rossi non saranno ben mescolati. Far scaldare l'olio o il burro in una padella anti aderente, versare le uova e far cuocere 12 minuti circa su fuoco un po' forte all'inizio e poi più dolce. Far scivolare l'omelette su un piatto e piegare in due per ottenere la forma tipica di calzone. A questa ricetta si possono aggiungere a scelta: pezzetti di formaggio di capra, prosciutto, erbe, zucchina grattugiata, etc.
per 4 persone

1 ricetta base - 1 pizzico di zafferano - 3 cucchiai di erbe fini tritate (erba cipollina, cerfoglio, aneto)

Sbattere le uova con lo sbattitore elettrico  per almeno 5 minuti a velocità massima finché le uova non siano raddoppiate di volume. Versare il composto di uova in una padella antiaderente, spolverare con lo zafferano e le verdure. Far cuocere 10/15 min.

giovedì 17 novembre 2011

TRENETTE CON RUCOLA, POMODORI SECCHI E RICOTTA SALATA

Un piatto che ricorda l'estate, con i suoi sapori freschi, ma sapidi. Veloce da fare e di sicuro successo, deve assolutamente essere saltato in padella affinché tutti i sapori si armonizzino. 

350 g di trenette - 4 scalogni grandi - 12 pomodori secchi sott'olio tagliati a julienne - 3 grandi manciate di rucola - 125 g di ricotta salata grattugiata - 2 cucchiai di pinoli tostati - 50 ml di olio evo - 1 spicchio d'aglio tritato - 60 ml di vino bianco - 1 cucchiaio di erbe aromatiche a piacere tritate (prezzemolo, origano o maggiorana e timo)

Scaldare 3 cucchiai di olio in una padella grande, far soffriggere gli scalogni con mezzo cucchiaino di sale e una spolverata di pepe. Quando gli scalogni sono mordidi unire l'aglio tritato e i pomodori secchi, cuocere per un minuto. Aggiungere il vino e cuocere a fuoco vivace fino a quando il liquido non si sia quasi completamente ristretto. Nel frattempo portare ad ebollizione abbondante acqua, salare e cuocere le trenette al dente. Prelevare un mestolo dell'acqua di cottura e aggiungerla agli ingrediententi nella padella insieme alla pasta, al resto dell'olio e ancora un po' di sale e pepe. Cuocere per un minuto ed unire la rucola, metà della ricotta salata, le erbe e i pinoli, far saltare trenta secondi. Servire con il resto della ricotta salata a parte.
per quattro persone 

mercoledì 16 novembre 2011

PROBLEMA TECNICO

Non so come, ma sono riuscita a cancellare il racconto che avevo scritto per questa settimana. Vi prego di perdonarmi e mentre mi riprendo dallo shock vi lascio con qualche ricetta estemporanea che vaga qua e là nella gastronomia quotidiana. Passato lo shock riscriverò per voi il racconto e tutto tornerà normale. Oggi ripropongo una vecchia ricetta, una minestra alto-atesina che però mia nonna, ligure doc faceva benissimo. Lei usava il brodo di dado, voi non ci provate, meglio farne uno di quelli buoni, per questa ricetta ne vale la pena. Domani qualcosa di nuovo.

MINESTRA DI FRITTATINE 


70 gr di farina - un uovo - 125 ml di latte - prezzemolo tritato - erba cipollina tagliata fine - burro o olio- sale pepe - brodo di carne o vegetale

Mescolare la farina con il latte e il sale, aggiungere l'uovo e le erbe. Far riposare una decina di minuti. In una padellina far scaldare il burro o l'olio e versare un po' di pastella come per fare una crepe. Farla cuocere da entrambe le parti finché non è bene dorata. Ripetere l'operazione fino all'esaurimento della pastella. Far raffreddare le frittatine, arrotolarle e tagliarle a striscioline. Portare il brodo ad ebollizione, mettere le frittatine nel brodo e servire.
per quattro persone



lunedì 14 novembre 2011

domenica 13 novembre 2011

GAMBERI SECCHI

Questo è un prodotto tipico del Nord Est brasiliano, in particolare di Bahia. Non esiste piatto cucinato da quelle parti che non abbia almeno un gamberetto secco come ingrediente. Hanno un bellissima sfumatura rossa dato dall'olio di Dende, estratto da una palma e che ha un colore arancio rossastro. Quest'olio è usato anche per la famosa Moqueca de Peixe, lo stufato con latte di cocco simbolo di Bahia e che Dona Flor cucinava molto spesso ai suoi due mariti. Può essere divertente fare in casa i gamberi secchi, che saranno buonissimi, come tutte le cose fatte in casa, è ovvio che si trovano anche quelli già pronti nei negozi di specialità esotiche. Si possono usare anche per ricette della cucina asiatica, in questo caso al posto del dende mettete l'olio di arachidi o di oliva. Qui vi insegno come farli. 

450 g di gamberetti freschi con le teste - 125 ml di olio di dende di buona qualità - sale

Accendere il forno a 250 gradi. Mettere i gamberi sulla placca del forno rivestita di carta di alluminio e mescolarli con l'olio. Far cuocere 18/20 minuti, girando i gamberi due o tre volte. Quando il guscio dei gamberi è croccante togliere dal forno e accendete il grill e mettete la teglia più vicina possibile alla fonte di calore per uno o due minuti. Non far cuocere troppo. Togliere dal forno e cospargere con il sale. Far raffreddare completamente prima di mettere in un barattolo con un pezzo di carta assorbente ripiegato, in questo modo assorbirà l'umidità e non ammollerà i gamberi. Conservare in frigo se non li utilizzate subito, durano una settimana.

venerdì 11 novembre 2011

TACACA - MINESTRA DI GAMBERI E JAMBU

Oggi vi do la ricetta impossibile da realizzare. In ogni libro di cucina, blog, ricettario c'è sempre una ricetta con l'ingrediente che non si trova, che non si può sostituire, specialissimo. Questa è la mia. Si tratta di una zuppa che si serve in Amazzonia, come spuntino di metà mattina in tutti i mercati e per le strade. Ha un ingrediente impossibile da trovare altrove, il jambu, si tratta delle foglie di una pianta che appartiene alla stessa famiglia della coca; per quest'ultimo motivo lascia le labbra leggermente addormentate dopo averla sorbita dallo speciale contenitore nel quale la si serve. Se qualcuno trovasse le foglie di jambo mi lasci un messaggio, ho grande nostalgia di questo piatto che anche in Brasile è difficile da realizzare perché le foglie si trovano quasi escuiusivamente in Amazzonia. E non è che il succo di Tucupi (succo estratto dalla pianta di manioca)  sia così facile da trovare, per altro; ma questa si può fare. 


1 litro di succo di tucupi - mezzo chilo di goma di tapioca  (addensante) - 1 piccolo mazzetto di foglie di jambu - 250 g di gamberetti secchi - 250 g di gamberi freschi - salsa di peperoncino pimenta de cheiro (mescolare una cipolla, uno spicchio d'aglio e del prezzemolo tritati finemente con succo di lime, olio d'oliva in parti uguali e un pomodoro fresco tagliato a dadini grossi. Aggiungere 3 o 4 peperoncini tagliati fini, salare)
La ciotola nella quale si beve la tacaca 

In una grande pentola mettere il succo di tucupi con la salsa di pimenta di cheiro e portare ad ebollizione. Ridurre la fiamma e far cuocere a fuoco basso dopo aver aggiunto la gomma di tapioca, le foglie di jambo e i gamberetti secchi. Far sobbollire per 5 minuti e aggiungere i gamberi freschi con il carapace. Far sobbollire ancora 4 minuti. Servire.
per 6 persone 


P.S. Domani la ricetta per fare i gamberetti secchi, uno degli ingredienti principali della cucina brasiliana, soprattutto di Bahia. E magari mi lancerò anche nella ricetta per ottenere la Goma de Tapioca.  



SOPA DE PALMITO - ZUPPA DI CUORI DI PALMA


Non è una zuppa di stagione, visto che va servita fredda, ma la presenza di cuori di palma la rende veramente brasiliana e poi, al caldo delle nostre case, si può far finta di essere a Rio. In una giornata nebbiosa è una cosa quasi necessaria, far finta intendevo. I brasiliani amano i cuori di palma, che adesso, per motivi di correttezza ecologica, non sono più estratti dal cuore della palma, uccidendo una palma per un solo cuore, ma da una pianta, che le assomiglia molto, soprattutto nel gusto. Si chiama Pupunha ed è un tipo di palma che cresce più velocemente e che ha un cuore molto più "ricco" rispetto alle palme originarie, nel senso che è molto più grande e può essere diviso. 

2 grandi cuori di palma freschi (in mancanza 500 g di cuori di palma in conserva) - 1 litro di brodo di pollo o verdura - 1 patata grande tagliata a dadi grossolani - 250 ml di panna - 4 cucchiai di olio (la ricetta originale vuole 125 g di burro) - 1 spicchio d'aglio tagliato fine - 1 cipolla bionda media tritata - 1 porro tagliato a fettine - 1 ramo di sedano tagliato a pezzettini - 3 cucchiai di erba cipollina tritata

In una pentola far soffriggere la cipolla con l'aglio fino a quando la cipolla è  morbida, aggiungere il porro, il sedano e cuocere per un paio di minuti. Se si usano i cuori di palma freschi unirli in questa fase e far cuocere per circa 20 minuti. Aggiungere il brodo e la patata tagliata, salare e pepare. Portare ad ebollizione. Far cuocere a fuoco basso per un quarto d'ora, o fino quando i cuori di palma non siano teneri. Se usate i cuori di palma in conserva aggiungerli quando le patate sono morbide e far cuocere per 4/5 minuti. Passare la minestra nel mixer o con il frullatore ad immersione. Far raffreddare, aggiungere la panna e mettere in frigo per un paio d'ore. Servire freddo con l'erba cipollina tritata.
per 8 persone

giovedì 10 novembre 2011

SOPA DE CASTANHA DO PARA - MINESTRA DI NOCI DEL BRASILE

Può sorprendere tutti, ma spesso in Brasile si mangiano zuppe e minestre nonostante sia un paese tropicale. Un piatto tipico dell'Amazzonia è la Tacacà, una zuppa a base di foglie di jambu, stretta parente della coca, per esempio. Nel mese di agosto, quando a Rio la temperatura si abbassa di qualche grado, ho avuto occasione di sentire un carioca affermare "oggi è un buon giorno per una bella zuppa".  Secondo lui faceva freddo, se per voi 22 gradi è freddo potete andarlo a trovare. Quindi, minestra sia, vi regalo questa ricetta tipica che per la stagione attuale nel nostro emisfero è l'ideale. 


350 g di noci del Brasile possibilmente non salate - un litro e mezzo di brodo di pollo o verdure - 200 ml di panna - 2 melograni - 50 g di burro - 2 cucchiai di farina - 1 cucchiaino di noce moscata - sale pepe

Far tostare le noci del Brasile in forno a 200 gradi per una decina di minuti. Raffreddare e togliere tutta pelle scura. Tritarle in un mixer fino ad ottenere una polvere abbastanza fine. Scaldare il brodo ed aggiungerne un mestolo alle noci nel mixer, azionare le lame. Tenere da parte. In una piccola pentola far sciogliere il burro, quando comincia a spumeggiare togliere dal fuoco e unire la farina, rimettere sul fuoco e far cuocere, girando sovente, finché il composto si stacca dalle pareti e dal fondo. Aggiungere 3 mestoli di brodo poco alla volta sempre mescolando con una frusta. Unire il composto insieme a quello di noci al resto del brodo. Salare pepare, spolverare con la noce moscata. Cuocere a fuoco dolcissimo per 15  minuti, unire la panna e continuare la cottura per altri 5 minuti. Pulire i melograni ed estrarre tutti i chicchi. Servire la zuppa nei piatti decorata con i chicchi di melograno.
per 8 persone


mercoledì 9 novembre 2011

CAIPIRINHA

Ripubblico la ricetta della Caipirihna che ho proposto qualche mese fa come aggiunta ad un racconto, questa ha il vantaggio di poter essere cercata con facilità nel blog visto che il nome è nel titolo. 
Non è come si fa una caipirinha che la rende indimenticabile, sono gli ingredienti. Prima di tutto ci vuole una cachaça di grande qualità. Ingrediente molto difficile da trovare dalle nostre parti. Tra le migliori marche ci sono la Rainha de Minas e la Espirito de Minas. I marchi che si trovano in Europa sono accettabili,  ma se andate in Brasile procuratevi una bottiglia delle migliori, sentirete la differenza. Lo zucchero di canna non è il demerara, scuro e a granello grosso, che troviamo oramai ovunque da noi. No, quello ideale per un drink perfetto è bianco e finissimo, raffinato. A volte si trova nei negozi di specialità etniche, altrimenti al supermercato... in Brasile. Un trucco per ottenerlo: frullate il demerara finché non diventa una polvere fine. Il lime, vanno bene quelli nostrani. Anche se la caipirinha fatta col limao galego, un piccolo limone/lime che è raro trovare anche in Brasile, è celestiale. Se per caso vi interessasse... a volte si trova al mercato principale di Sao Paulo. Volete stare nella tradizione? Usate uno stecchino, tipo quelli del gelato, per girare il drink. Se volete potete sostituire la cachaça con la Vodka, il Rum o il Sake, a questo punto la bevanda prenderà il nome di Caipiroska, Caipirissima o Sakerinha. L'ultima è la mia preferita, ovviamente dopo l'originale che da il titolo al post. 

100 ml di cachaça - un lime sugoso - zucchero di canna a piacere (almeno 2 cucchiai, però) - ghiaccio

Tagliare il lime prima in quarti poi a pezzetti, metterli in un bicchiere tipo tumbler. Aggiungere lo zucchero e con un pestello di legno lavorare fino ad ottenere tutto il succo del lime. Mettere il ghiaccio rotto, non tritato, a pezzi grossolani. Aggiungere la cachaça e con un stecchino da cocktail girare bene, facendo attenzione che tutti i sapori si mescolino. Servire
per un bicchiere


martedì 8 novembre 2011

CARTOLINA DA RIO

L'aereo aveva virato leggermente a sinistra, quando all'improvviso si era presentata la baia in tutta la sua interezza. Un magnifico insieme di grandi insenature, incastonate fra colline di pietra scura, contornate da vegetazione di varie tonalità di verde, che finivano in spiagge di sabbia dorata e dentro ad un oceano blu cobalto. Fuori dal finestrino si avvicinavano il Pao de Açucar, Copacabana e Santa Teresa. Un'altra piccola virata e di lato, a pochi centimetri, il Cristo Redentore, che abbraccia la città dal Corcovado, sfiorava l'ala dell'aereo con le sua mani, sotto si intravedeva appena la Lagoa Rodrigo de Freitas, lo specchio d'acqua interno a Ipanema. Io avevo un nodo alla gola, lo stomaco stretto dentro cui danzavano mille farfalle, quasi non riuscivo a respirare. Ero come un'innamorata. Non dimenticherò mai il mio primo atterraggio a Rio, è stato come fare l'amore la prima volta; no, la seconda, la prima è stata un vero disastro. Il mio sogno di bambina si stava avverando, ero nella Cidade Maravilhosa così i Carioca, gli abitanti di Rio, chiamano la loro città. Quante volte avevo sfogliato l'enciclopedia, cercato foto in biblioteca, letto libri, persino studiato la cartina della città trovata a casa di un'amica. Quante volte avevo interrogato amici che ci erano stati, bevendo ogni parola e sognando. E ora ero lì, nella testa la colonna sonora che mi ero specialmente preparata:  Agua de Beber, Aguas de Março, So Danço Samba, Desafiando insomma tutto Antonio Carlos Jobim e, chiaro, non poteva mancare, A Garota de Ipanema nella versione col sax di Stan Getz. Negli occhi il panorama dall'aereo. Insomma era la più ovvia e banale colonna sonora della cartolina della città più fotografata al mondo, più musicata al mondo, più festaiola al mondo, più spogliata al mondo, più carnevalesca al mondo. La prima volta che ho respirato l'aria umida fuori dall'aeroporto mi sono sentita a casa, non una turista, non una viaggiatrice, non una straniera. A casa. Rio è casa mia. La mia dimensione: in costume da bagno tutto l'anno a rimirare le ovvie bellezze sfacciate della città, i morros, le spiagge, il selciato bianco e nero, i cibo, il clima tropicale, la Caipirinha, la gente. Un melting pot incredibile dove tutte le razze si mescolano, rimescolano, uniscono, disuniscono. In certi momenti sono divise come l'acqua e l'olio, in altri sono un tutt'uno. Dove durante il carnevale non esistono classi sociali e tutti si divertono insieme, salvo il giorno dopo riprendere i ruoli designati. Mescolarsi è una cosa facile, perché le favelas crescono insieme ai quartieri più eleganti, a volte non si capisce quale sia il confine tra il quartiere povero e quello ricco, se non fosse per alcuni tetti di lamiera o le finestre senza vetri di alcune case. I morros, le famose colline carioca, sono disseminate di grappoli di case basse colorate, bianche, di semplici mattoni forati, i poveri vivono in collina i ricchi, o quelli che credono di esserlo, sotto, nei grattacieli che si spingono fino alla spiaggia.
A Rio tutto è più rilassato, lento, flemmatico, forse per il caldo, forse per l'umidità, forse per un ricordo dei colonizzatori nullafacenti, ma molto tenetenti. E' ovvio a Rio si lavora, ma ci sono dei vantaggi a vivere in questa città. Puoi sgranchirti le gambe tra una riunione e l'altra passeggiando per un tratto di lungomare a Leblon oppure puoi trascorrere la pausa pranzo guardando l'oceano, o la gente che si diverte, mangiando uno spuntino seduto ad un tavolino del Posto 9, la spiaggia alternativa, dove la varia umanità crea cose fantastiche solo muovendosi. Questo momento potrebbe prendere il nome di studio antropologico se solo uno desiderasse dargli un nome. Una bella differenza da una città senza il mare. Gli abitanti di San Paolo non sono molto d'accordo con questa rilassatezza e fanno girare una feroce battuta: "Sapete perché il Cristo sta a braccia aperte sul Corcovado? Perché aspetta che il primo carioca lavori per applaudire". Rivalità tra città, un po' come Milano-Roma.
La mattina prestissimo il famoso selciato a onde bianche e nere sui lungomare della città è calpestato da migliaia di piedi: gente che corre, gente che cammina veloce, ragazzi che fanno flessioni, ragazze che esercitano i famosi glutei brasiliani, nottambuli con la bottiglia di birra in mano che guardano perplessi una città che a quell'ora è già troppo in movimento per loro. Sono appena le sei del mattino e ferve l'attività, non solo quella fisica. Un posto dove si vive svestiti tutto l'anno non può che avere il culto del corpo. Rio è il regno della chirurgia plastica, seni grossi a bilanciare i sederi perfetti, nasi all'insù su donne scure come la pece, labbra carnose su bionde improbabili, pelli lisce, zigomi perfertti, melanina che si scatena in tutti i colori. Sederi in mostra strizzati dentro ai famosi costumi brasiliani, straccetti che stanno in una mano chiusa a pugno anche se imbottiti. Sederi fuori, seni dentro, non troppo però, i  reggiseni coprono appena i capezzoli, ma il topless, e chi l'avrebbe mai detto, è proibitissimo, signore che lo hanno praticato hanno provato la gioia di una notte nelle patrie galere. Posti non tutt'altro che belli da queste parti.
La sera del mio arrivo, un'ora dopo l'atterraggio, sono voluta andare in Rua Vinicius de Moraes. Mentre ci andavo ho visto il mio primo borseggio brasiliano, in realtà il primo borseggio della mia vita. Un signore basso e un po' sovrappeso stava fermo ad un angolo della strada, un giovane mulatto piuttosto carino aveva colto la mia attenzione, il ragazzo mi è passato vicino senza neanche degnarmi di uno sguardo, puntava all'uomo sovrappeso, gli ha dato una spallata e gli ha sfilato il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni  Ci ho messo di più io a scrivere "tasca posteriore dei pantaloni" di quanto non ci abbia messo il ragazzo a borseggiare l'uomo. Ladro, ma molto carino e in fondo ci sono rimasta un po' male di non aver fatto colpo sventando così un crimine. Dopo l'imperdibile esperienza sono arrivata al bar Garota de Ipanema a bere una Caipirinha. In quel bar, forse sarebbe meglio dire nel bar che precedeva quello, Jobim e Vinicius (a cui hanno dedicato la via) hanno scritto la famosa canzone sulla "ragazza dal corpo dorato dal sole di Ipanema". La canzone rimane bellissima, il posto una delusione turistica terribile: caipirinha annacquata e cara, l'atmosfera uguale alla versione cartonata di un oggetto reale, deprimente, e deprimersi a Rio non è proprio facile. Molto meglio, molto più brasiliano, il Suco de Manga (succo di mango) bevuto per cena e in piedi al bancone di uno dei tanti posti dove spemono ogni tipo di frutta.
All'epoca non lo sapevo che avrei vissuto in Brasile e che quel viaggio a Rio sarebbe stato il primo di molti, cercavo di bere la città, di staccarla morsi, inghiottendola il più velocemente possibile, volevo assorbine le atmosfere, cogliere ogni sfumatura. Impossibile, sermbra una città facile e disponibile, in realtà va scoperta poco a poco. Senza fretta. Solo andando molte volte si scoprono angoli sconosciuti e magnifici, come un la casa di un artista che lavora materiali di recupero.
Pochi minuti dopo il borseggio, ho avuto il piacere di sentire alcuni spari nella luce del crepuscolo, provenivano dalla favela. Chissà cos'era stato, probabilmente uno dei tanti casi che avrebbero meritato dieci righe sul giornale il giorno dopo. Quella sera stessa mentre guardavo la gente che correva sul lungomare (non lo fanno solo la mattina) grosse gocce hanno colpito l'asfalto ancora caldo provocando una leggera nebbiolina. Una pioggia tropicale, calda che ti infradicia completamente ma che di solito dura poco. Una corsa in albergo e non sono più uscita. Guardavo il mondo dalla finestra chiusa, come in un acquario un muro d'acqua era fra me e le palme,  fra me e la gente. Gocce grosse come meloni si frapponevano alla vista dell'oceano e rendevano lucido il granito bianco e nero del selciato. Un granito che parla di schiavitù perché arrivava con le navi negriere quando erano vuote del carico umano. Quella pioggia è durata per tutta la notte e la mattina dopo si contavano i danni di un'alluvione da manuale, cosa non rara da queste parti.
Quel primo giorno ho vissuto tutte le emozioni vivibili in Brasile, dalle più belle alle più brutte.
Il giorno dopo in cielo ancora qualche nuvola rompeva l'azzurro, i detriti invadevano la città, ma il sole splendeva, sul lungomare tutti camminavano o correvano, alti, magri, bassi, grassi, belli,brutti. Sulla spiaggia giocavano ragazzi dai fisici mozzafiato, tiravano calci ad un pallone e magari fra di loro c'era un ragazzino che da grande sarebbe diventato un famoso giocatore. Le reti da pallavolo erano affollate e di li a qualche anno il beach volley avrebbe spopolato in tutto il mondo. Venditori di cappelli, biscotti, birre, parei, pannocchie bollite solcavano la spiaggia davanti alle sdraiette e agli asciugamani. Io ho fatto due passi lungo la spiaggia e mi sono comprata una T-shirt, la scritta diceva in grande "I left my heart in Rio" in piccolo "And my wallet, my camera...". Ho lasicato il mio cuore a Rio, e il mio portafoglio, la mia macchina fotografica....

domenica 6 novembre 2011

COZZE AL VAPORE CON AGLIO

In Cina si incontrano spesso i molluschi cotti in questa modo: vongole giganti, ostriche o cozze e chi più ne ha ne metta. Sono un modo sano e semplice di proporli e soprattutto a prova di cuoco negato. Le conchiglie vengono fatte aprire e successivamente messe a cuocere al vapore, è quindi un piatto che può essere preparato in anticipo. La ricetta è in quantità necessaria per un piccolo antipasto o snack da aperitivo, potete aumentare le dosi a piacimento. Il coriandolo fresco presente nella ricetta è facoltativo, ma a me piace molto il profumo e il sapore che conferisce al pesce e ai frutti di mare. 

12 cozze grandi - 6/8 spicchi d'aglio - 1 cucchiaio di olio - 1 cucchiaino di brodo di verdura in polvere - 1 cucchiaino di zucchero - mezzo cucchiaino di salsa si soya - 1 peperoncino tagliato fine - 1 cipollotto tagliato fine - foglie di coriandolo (facoltative)

Far aprire le cozze in un grande wok con dell'acqua bollente. Scolare, asciugare e dividere a metà le conchiglie, mettere quella con il mollusco un piatto in attesa di cuocerla al vapore. Tagliare fino metà dell'aglio e cuocerlo con l'olio fino a doratura. Scolare. Mettere da parte. Tritare il resto dell'aglio finissimo e metterne un po' sopra ognuna delle conchiglie, aggiungere il brodo in polvere, la salsa di soya e lo zucchero. Far cuocere al vapore per circa tre minuti, va bene sia la vaporiera elettrica che quella di bambù, più tipica. Guarnire con l'aglio fritto, il peperoncino e il cipollotto tagliati fini e il coriandolo (se lo usate) tritato. Servire subito.




sabato 5 novembre 2011

TOFU FRITTO SAPORITO

Un modo poco sano, e non vegetariano, di cucinare il Tofu, ma insomma viviamo pericolosamente ogni tanto!

500 g di tofu - 250 g di farina - 1 uovo - 2 cucchiai di brodo vegetale in polvere - mezzo cucchiaino di sale - mezzo cucchiaino di zucchero - mezzo cucchiaino di pepe bianco - 1 cucchiaio pieno di Thai Curry Paste - 100 g di carne di maiale tritata fine - olio per friggere

Tagliare il tofu a rettangoli di circa 8 cm x 2 cm. Mescolare tutti gli ingredienti, escluso la carne di maiale, fino a formare una pastella densa. Unire il maiale. Scaldare l'olio. Immergere i bastoncini i di tofu nella pastella girando bene perché tutta la superficie si a coperta. Friggere per tre o quattro minuti, finché i bastoncini non sono dorati. Spolverare di pepe e servire.

P.S. La Thai Curry Paste si trova nei negozi di specialità orientali 

giovedì 3 novembre 2011

RAVIOLI CINESI (WAN TON) IN SALSA PICCANTE -

Chi al ristorante cinese non ha mai ordinato i ravioli al vapore? Abbassate le mani che vi ho visto tutti. Sono buonissimi e sfiziosi. In genere in Cina sono uno snack e possono essere serviti in brodo, fritti o bolliti con ripieni vari. Io ricordo quelli cotti su una piastra rovente in una stretta viuzza di un mercatino di Pechino. Erano leggermente croccanti ed erano serviti con una salsina leggermente agra. Il ripieno era di verdure e carne, la cui provenienza ignoravo oggi come allora, e voglio rimanere ignorante. Questi che propongo sono una specialità dello Sichuan, patria della cucina piccante cinese dove le spezie e il peperoncino sono re incontrastati.

50 quadrati di pasta per Won Ton - 200 g di carne magra di maiale tritata - 1 uovo - 1 cucchiaio di zenzero fresco tritato - 2 cucchiai di vino di riso (va bene anche bianco) - 1 cucchiaino di sale - pepe bianco

Per la salsa: 1 cucchiaino di aglio tritato (o passata allo spremiaglio) - 4 cucchiai di salsa di soya - mezzo cuccchiaino di zucchero - mezzo cucchiaino di cannella in polvere - 4 cucchiai di olio al peperoncino (sotto la ricetta) - 1 cucchiaio di cipollotti tagliati fini 

Per la salsa: Dividere gli ingredienti sul fondo di ogni ciotola di servizio in questo modo: un quarto dell'aglio, 1 cucchiaio di salsa di soya, un pizzico di zucchero e un pizzico di cannella.

Prendere i quadrati di pasta e tagliarli con un bicchiere o un taglia pasta rotondo. Mescolare la carne trita, l'uovo, lo zenzero, il vino di riso, sale e pepe. Mettere un cucchiaio di ripieno sula pasta, bagnare leggermente il bordo e chiudere a mezzaluna. Far cuocere in acqua bollente salata per due o tre minuti. Scolare e dividere i ravioli nelle ciotole di servizio. Terminare con un cucchiaio di olio al peperoncino per ogni ciotola. Guarnire con il cipollotti tritati. 

P.S. Per fare l'olio al peperoncino: 200 ml di olio - 1 cucchiaio di pepe di Sichuan - 2 peperoncini tagliati fini. Scaldare l'olio con i peperoncini e il pepe. Cuocere a fuoco dolcissimo per cinque minuti. Far riposare due o tre giorni e filtrare i peperoncini e il pepe. Conservare in un barattolo a chiusura ermetica, al fresco. Dura sei mesi. 

mercoledì 2 novembre 2011

STRISCIA LA CENA IN CINA

Il magnifico panorama, in cima alla collina di sinistra un pezzo delle muraglia
Ci eravamo trasferiti da poco in Cina. Una Cina in bilico tra passato e futuro, ancora più di oggi, un paese dove le biciclette la facevano  da padrone e dove le macchine erano una rumorosa rarità. Per poco, come avremmo potuto constatare. La nostra residenza era stata fissata nel villaggio di Weng Ling, ai confini con la Mongolia Cinese, un'amena e ridente località abitata da cinquecentomila persone, detta il "pantofolificio" tanto era bella.  Porre l'attenzione sulla parola villaggio per definire un luogo che ha più abitanti di Firenze. Le temperature estive oltrepassavano i trenta gradi, quelle invernali scendevano fino all'estremo opposto, quando faceva caldo potevamo contare sui meno venti gradi, il vento era un regalo quotidiano, ma solo d'inverno, d'estate l'aria era stagnante. Il lamate fulminanti di aria gelida che penetravano nelle poche fessure delle giacche a vento, la secchezza dell'aria che inaridiva le mucose provocando ulcere dolorose, il cielo bianco venato di grigio, insieme al ghiaccio, erano l'accompagnamento ideale delle nostre splendide e attive giornate invernali. Il panorama era brullo, terroso e polveroso, quattro striminziti alberelli, alti poco più di trenta centimetri, provavano eroicamente a crescere protetti da piccoli cumuli di terra su colline spoglie e tristi. Gli alberi, quelli centenari, erano stati tagliati per aiutare il Grande Timoniere verso il progresso del "grande balzo in avanti" più di trent'anni prima. La grande muraglia, orgoglio nazionale, era un cumulo di terriccio e pietre che tagliava i campi. Il rivestimento del muro e delle torrette di avvistamento era stato usato nei secoli per delimitare i confini, l'acqua aveva fatto il resto regalando a  noi la vista di un ammasso di terra sconnesso. Lì la Muraglia non era l'opera lustra e bella di Pechino, quella che orde di turisti visitano a frotte ogni anno. Tutto questo paesaggio era coperto da un sottile strato di fuliggine dovuta al carbone col quale tutti ci riscaldavamo, ogni oggetto della casa assumeva il caratteristico aspetto grigiastro a contatto con la grassa polvere nera. Un gran bel posto per viverci.
Il sabato sera c'era sempre un gran movimento,  organizzavamo uscite e cene fuori, grandi mangiate di cucina locale e grandi partite a bowling o fantastiche cantate al Karaoke nella città vicina, una ridente cittadina di un milione di abitanti fornita di ogni confort, persino un mercato coperto dove trovare tutto, ma proprio tutto, persino, meraviglia, la lampada che si accendeva e spegneva sfiorandola. La fuliggine qui si faceva più densa e spesso d'inverno, nonostante il vento tagliente, sembrava che ci fosse la nebbia. Dunque, noi uscivamo spesso a cena. L'uso delle bacchette era d'obbligo, non esisteva altro sul tavolo dei ristoranti. Alcuni erano riusciti a convincere i padroni di alcuni locali che frequentavamo più assiduamente a proporre coltello e forchetta. I risultati dell'igiene di questi oggetti metallici erano di dubbia qualità, principalmente per l'inesperienza dei ristoratori a quel tipo di posata. Non è necessario dire che i "forchettari" erano guardati con estremo sospetto dai locali.  I ristoranti erano simili al panorama circostante, un po' tristi e ambigui, ma si mangiava bene e naturale. Soprattutto fresco. Entrando nei locali c'erano grandi vasche e grandi bacheche piene di pesci, animali e crostacei. Vivi e vegeti, che ti guardavano e sorridevano mentre entravi. Poco dopo li avresti mangiati, ma loro non lo sapevano. NOn ho mai visto un pollo, una gallina o un maiale in queste bacheche, ma immaginavo, nei miei deliranti pomeriggi invernali, un'ampia e spaziosa aia dove il capo cuoco rincorreva con una mannaia gigante l'animale prescelto per il mio piatto. Una sera eravamo nel nostro ristorante preferito, al nostro solito tavolo, quello dei VIP, ormai nostro ad aeternum vista la quantità di Remimbi (Yuan) che lasciavamo settimanalmente al padrone, e abbiamo deciso di vivere pericolosamente. Assaggiamo il serpente, era stato l'urlo di battaglia. Qualcuno era restio, altri entusiasti, altri ancora perplessi, ma curiosi. E serpente fu.
I menù, inizialmente proposti in lingua locale e in tutto il loro splendore di ideogrammi erano stati gradualmente sostituiti con quelli in inglese con risultati esilaranti nella scelta dei vocaboli. Però sul nostro menu non era stata inserita la scelta di piatti a base di serpente, forse nella certezza che quegli strambi degli occidentali non avrebbero avuto voglia di assaggiare una prelibatezza simile. Il più intraprendente fra di noi non ha avuto esitazioni e ha portato il cameriere nelle gabbiette dell'ingresso, tutte di forme deliziose, dal tronco di cono alla cupoletta, di bambù e di diverse dimensioni, dove stazionavano serpenti più o meno grassi, più o meno lunghi, ma dello stesso triste colore grigio. Ha mostrato quella che per noi sarebbe diventata la cena. Il cameriere ha annuito, ma noi non abbiamo assistito alla scena perché il tutto era nascosto dietro alla tenda di velluto blu anti vento freddo. Dopo un po', io ero di schiena accanto alla mia amica e stavo amabilmente conversando, quando fra noi due si è frapposto il cameriere che con un gesto elegante ci ha messo sotto gli occhio le sue mani smilze. Sobbalzo, anzi grosso urlo. Il cameriere, tra pollice e indice della mano destra  teneva la testa del serpente che tirava dentro e fuori la lingua, con la mano sinistra e il resto della destra cercava di tenere fermo il corpo della strisciante bestia che sbatteva da un lato all'altro in un disperato tentativo di fuga. Ad un certo punto il serpente si è anche messo a soffiare, non proprio amabile. Nel frattempo con un cenno del capo il cameriere mostrava il rettile al nostro amico, voleva essere sicuro che lui vedesse che era proprio quello scelto dalla gabbia. L'altro ridendo annuiva. Rideva perché il panico era calato sulla tavola come la nebbia al carbone di quell'inverno cinese e lui godeva a vedere la reazione del pubblico. E se il serpente fosse scappato? Magari atterrando sul mio grembo? Gulp. Passato il momento, abbiamo ordinato il resto della cena seguendo il normale percorso del menu: pollo, maiale, verdura.
Poco dopo è arrivato il nostro antipasto, bile di serpente diluita in un liquore semi dolce, in apparenza sakè, ma forse vino dolce cinese. Una vera porcheria, ma pare che faccia bene a tutti, compresi gli uomini la cui virilità viene a mancare. Mah. Poi è arrivata la pelle, forse fritta, forse messa sulla piastra, non lo sapremo mai perché nel ristorante non parlavano nessuna lingua che non fosse il dialetto locale, nemmeno il mandarino. Altra porcheria, ma croccante. Poi è arrivata la carne, stopposa e filacciosa cotta senz'altro alla griglia vista la gradevole nota affumicata. Stopposa e filacciosa, dicevo, che sapeva di pollo, ma senza la fragranza magnifica dei polli cinesi. Un'altra porcheria, ma almeno tutti noi commensali possiamo vantarci di aver mangiato serpente. Volete mettere quanto siamo stati avventurosi?