lunedì 30 aprile 2012

UNA CASA IN RIVA AL MARE IN URUGUAY

Vista dalla finestra dello studio 
Soffia il vento, una brezza tesa e fresca che increspa di onde il mare dai colori invernali, quei blu profondi e qui verdi un po' fangosi tipici delle mareggiate della stagione fredda. Il cielo è privo di nuvole, turchese, brillante e trasparente grazie al vento che libera l'aria da qualsiasi impurità. La sabbia è calda come si conviene alla stagione, ma sdraiarsi al sole è un'impresa ciclopica per chi non è abituato a questo clima. L'Uruguay è uno strano posto per andare in vacanza, soprattutto per noi abituati al mediterraneo le sue coste battute dal vento e le sue acque ghiacciate sono difficili da associare alla vacanza di mare. Eppure tutti i sudamericani, persino i brasiliani che hanno una costa favolosa, adorano spingersi sulle spiagge lunghe e sabbiose uruguaiane, e soprattutto di Punta del Este  Tanto che da qualche anno è diventata una moda per molti europei trascorrere le vacanze invernali nella Porto Cervo dell'emisfero australe. Quando vivevo in questa parte di mondo ho passato anche io parte delle mie vacanze, nella cittadina chic e mondana, passeggiando tra ville hollywoodiane e case un po' sgarrupate ma piene di fascino, alberghi di design e passeggiate sulla battigia, tra cene allo yacht club e empanadas addentate prima di una grigliata sulla spiaggia. Nel contrasto tipico dell'America Latina, sempre in bilico tra chic sontuoso e campagna ruspante. Ho molto amato le lunghe spiagge di sabbia bianca, costeggiate dalle dune e da una natura selvaggia, ho adorato il repentino cambio di colori del cielo e la luce brillante e favolosa; ho apprezzato molto meno l'acqua la cui temperatura vira dal freddo al ghiacciato e le sue notti nordiche. E' stato bello visitare Punta del Este, vale sempre la pena conoscere un posto nuovo, ma non me ne sono mai innamorata. Io e questa città sull'oceano non abbiamo molto in comune. Se devo trovare spiagge battute dal vento, lunghe e sabbiose, con l'acqua fredda e i colori cangianti preferisco il mio amatissimo mare del nord, tra il Belgio e la Gran Bretagna su, su fino alla Danimarca.
Un'estate, non vivevamo già più a Buenos Aires, i nostri amici ci hanno invitato a trascorrere con loro le vacanze estive, che erano quelle invernali per noi. Tutti insieme abbiamo affittato una casa sul mare, in un villaggio un po' lontano da Punta del Este e le cui atmosfere erano decisamente più rilassate. Si chiamava, anzi si chiama la Pedrera. All'epoca era un pugno di case originali lungo la spiaggia, un paio (letteralmente) di ristoranti vista mare, una discoteca scalcinata e molto spirito hippy. La casa che abbiamo affittato era di un artitista, forse un pittore, più probabilmente uno scultore vista la presenza di statue, statuine, oggetti forgiati che decoravano gli interni e gli esterni. Stava in cima ad una duna ed era una casa bassa, degli anni quaranta circa, con un fascino smaccato e fantastico e che aveva una struttura e una pianta particolari. Era lunga, lunga e finiva con una stanza che le dava una sorta di forma ad elle, accanto a questa un garage che rinforzava l'idea della decima lettera dell'alfabeto. Ogni stanza si incastrava nell'altra senza soluzione di continuità, si partiva da quella che era studio, veranda, sala da pranzo, una zona divisa in due parti le cui enormi finestre guardavano l'oceano sempre in agitazione. Lì si trovava una grande libreria colma di testi, oggetti trovati sulla spiaggia, sculture senz'altro del padrone di casa, un tavolo da pranzo di legno lucido e smangiato dal tempo, qualche puf, sedie e poltrone. Le piastrelle nere e beige davano continuità alla casa, e non vi era stanza che non le avesse, compreso il piccolo studio accanto alla stanza con la libreria con i suoi ninnoli di vetro, metallo e cristallo appesi alle finestre che rilucevano nella luce del tramonto creando effetti magici. Le tende di canniccio e la libreria bassa conferivano un'aria di casa perfetta a questa stanza che una di noi aveva scelto come propria. Allora aveva steso a terra un futon sottile, qualche lenzuolo e qualche cuscino e si era creata la sua cuccia, un'alcova deliziosa e romantica. Girando le spalle al mare c'era quello che pomposamente un borghese avrebbe chiamato il salotto. Divani di pelle, corna di animali, poltrone rivestite di stoffe di cotone colorato, quadri astratti, figurativi, un po' sporchi, qualche mensola con libri e ninnoli, questo caos eclettico era il paradiso dei bambini che qui passavano ore e ore a guardare, toccare, annusare.  I piccoli dividevano la stanza seguente. Lì c'erano due lettini, più un terzo che per una baby sitter eventuale, era una stanza spartana, spoglia, priva di oggetti e con un solo quadro fatto di stoffa alle pareti. Seguiva la camera padronale, un letto matrimoniale ancora più monacale ed essenziale, quasi a voler sottolineare il pudore della vita privata in contrasto con quella pubblica, rutilante di cose, oggetti e sensazioni. In fondo a tutto, la cucina con la sua finestra che dava sul retro, sotto la quale si trovava un acquaio di quelli di una volta, di pietra e cemento col rubinetto cromato tutto spellato, un piano di appoggio anch'esso di pietra, sotto l'acquaio tutto il necessario per la pulizia della casa, la spazzatura, le palette, gli stracci; tanti scaffali aperti fungevano da dispensa e poi un frigo e una cucina economica, non di quelle a carbone ma con la bombola del gas. Chiudeva l'infilata la nostra stanza, due lettini monacali come tutto il resto delle stanze, senza nemmeno un quadro. Evidentemente doveva ancora essere dipinto il quadro di quella stanza.
Trascorrevamo le nostra giornate tra la spiaggia e il giardino, mangiando insalate di carote, barbabietola cruda e maionese, a cui si alternava quella di lattuga, pinoli, pomodori secchi e rucola. Ogni tanto preparavamo pasta aglio, olio e peperoncino, o quella con il sugo di pomodori crudi a seconda dell'umore e della disponibilità del mercato potevamo anche lanciarci in manicaretti più eleborati come gli spaghetti ai frutti di mare. Arrivando dall'Argentina, e trovandoci in Uruguay, non poteva mancare l'asado, di pesce visto che eravamo al mare, cucinato nella grande parilla che si trovava accanto alla nostra stanza priva di fronzoli e che spesso prendeva l'odore di ciò che avevamo cucinato, costringendoci a notti di finestra aperte e coperte ben tirate sulla testa. Le nostre serate trascorrevano in giardino e nel patio con una birra o del vino finché non eravamo sfiniti, le lingue spesse dalle chiacchiere e la testa leggera per via dell'alcool e delle troppe sigarette. A volte preferivamo passare la serata in salotto per stare un po' più caldi. Una notte, eravamo appena tornati  da una gita a Punta del Este, ci siamo rimpinzati di panini al prosciutto e formaggio, tutto tirato fuori direttamente dal frigo, annaffiandoli con birra fredda. Io mi sono rimpinzata più degli altri, un panino o due in più, una vera vergogna, col risultato che sono stata male nei tre giorni successivi. Non potenvo sentire l'odore del cibo, figuriamoci mangiarlo o annaffiarlo con qualsiasi cosa che non fosse acqua, possibilmente calda. Senz'altro è stata la mia ingordigia a rovinarmi quei tre giorni perché tutti gli altri stavano benissimo o forse la birra ghiacciata tracannata alla canna ha fatto il suo dovere.
Ogni tanto ci spingevamo qualche metro a destra, salivamo un paio di gradini e ci accomodavamo ad uno dei tavoli di legno grezzo del ristorante della porta accanto, eletto a nostra sala da pranzo preferita.  Non avevamo la più pallida idea di come si mangiasse e dove fosse l'altro. Chiacchierando coi padroni, nostri coetanei, sgranocchiavamo gamberetti fritti, tutti interi, carapace, teste e code comprese, bevevamo birra ghiacciata e aspettavamo il tramonto per ordinare i calamari alla griglia.  Questo era il menu che poteva variare in questo senso: sotto il calamari poteva esserci o non esserci il riso. Calato il sole facevamo notte conversando liberi da ogni freno dopo una bottiglia di bianco sorseggiata con lentezza guardando il mare, nero come l'inchiostro, ma illuminato da uno spicchio di luna. La notte era spesso fresca e allora ci avvolgevamo in un maglione di morbida lana, ma i piedi rimanevano gelati dentro alle infradito di gomma. Restavano solo i grilli a farci compagnia dopo che i bambini erano andati a dormire. E noi in silenzio, tutti insieme seduti sul ciglio della duna, ci sentivamo veramente in vacanza e solidi nella nostra amicizia.

P.S. Pare che la casa non esista più e che la Pedrera assomigli molto a Punta del Este. 

sabato 28 aprile 2012

MILK SHAKE AL CAFFE CON GELATO VANIGLIA E CIOCCOLATO


Questo è un dolce/bevanda che mi ricorda molto il mio primo milk shake bevuto a casa di un'amica americana. Quella crema spumosa mi era sembrata il paradiso, questa che vi presento è un paradiso di golosità con l'aggiunta di palline di gelato. Gli americani lo chiamano Knickerbocker, credo perché lo servissero al Knickerbocker club di New York.  Delizioso e supercalorico.

mezzo litro di latte intero – 4 cucchiai di sciroppo di caffè o liquore di caffè – 300 g di gelato al cioccolato – 300 di gelato alla vaniglia – panna montata e/o scaglie di cioccolato per guarnire

Raffreddare i bicchieri nel freezer. Frullare il latte col il caffè finché non schiumoso. Mettere le palline di gelato nei bicchieri, versarci sopra il composto di caffè e decorare con panna montata e scaglie di cioccolato. 

venerdì 27 aprile 2012

RISO AL LATTE ALLA VANIGLIA

Questo era un dolce che preparava la tata filippina per le merende, descritte nel racconto, a casa della figlia del palazzinaro. Ovviamente, non è la sua ricetta, ma qualcosa che assomiglia molto alla crema col riso che faceva lei. Al principio non ci piaceva molto, ed era la prima cosa che mangiavamo perché così andava giù liscia visto che eravamo forniti di fame lupesca, dopo passavamo alle cose che preferivamo. Poi, abbiamo cominciato ad apprezzala ed è diventata uno dei nostri dolci preferiti con la sua consistenza cremosa-grumosa. Sognavamo di andare in quella casa solo per il riso al latte. Quello che mangiavamo noi era aromatizzato alla cannella, ma sono infinite le varianti che possono essere presentate agli ospiti. 


150 g di riso Roma - 700 ml di latte - 300 ml di panna - 2 stecche di vaniglia - 100 g di zucchero a velo

Mettere in una pentola il latte, la panna, le due stecche di vaniglia aperte a metà, i semi recuperati con un coltello, unire lo zucchero e il riso. Portare ad ebollizione su fuoco medio ed abbassare la temperatura al minimo e far cuocere 35/40 minuti. Togliere le stecche di vaniglia. Lasciar raffreddare per 20 minuti e poi mettere in frigo per un'ora. Servire in coppette insieme a marmellata di more e lamponi, frutta fresca o anche, se lo trovate, Dulce de Leche, una crema che sa di caramella mou (cercare nel blog la descrizione).
per sei persone 

giovedì 26 aprile 2012

BUDINO DI FRAGOLE CON PANNA

Era rosa in maniera preoccupante, ma rosa, rosa con una sfumatura quasi blu. Era del tutto privo di seminini, liscio, liscio, lucido, lucido. Lo faceva mia nonna solo per me, perché sapeva che adoravo le fragole. Quando era in vena lo contornava con tanta panna e qualche fragola tagliata a metà. Era sempre pronto, e un giorno ho capito perché una nonna che non sapeva cucinare facesse un budino di fragole così favoloso, ma dal colore inquietante: era quello nelle bustine già pronto. Marca Elah. All'epoca non conoscevo la differenza tra il sapore liofilizzato del budino di mia nonna e quello del budino fatto con le fragole vere, il latte, la panna, la vaniglia e quindi lo trovavo favolsisssimo. Ecco, per me, nonostante tutto, quello resta un sapore fantastico perché mi ricorda la nonna. Un po' come l'Idrolitina, che faceva friggere l'acqua e la salava un po', ed è un ricordo piacevole dell'infanzia. Ovviamente, ci vuole praticamente lo stesso tempo a preparare il budino con le fragole vere e quello liofilizzato, ma mia nonna non sapendo cucinare ignorava il fatto. 

500 g di fragole - 100 ml di latte intero - 100 ml di panna - 150 g di zucchero - 1 stecca di vaniglia - 3 fogli di gelatina (o 1 cucchiaino raso di agar agar in polvere)

per decorare: 150 ml di panna - qualche fragola

Lavare e pulire le fragole, asciugarle e frullarle. Se si usa la gelatina in fogli farla ammollare in acqua fredda. Aprire a metà la stecca di vaniglia, estrarre i semi. Portare ad ebollizione il latte e la panna con lo zucchero, la stecca di vaniglia aperta e i semi (se si usa l'agar agar unirlo prima di di scaldare e far cuocere per almeno due minuti). Se si usa la gelatina strizzarla e unirla in questa fase, mescolare bene. Togliere le stecche di vaniglia. Aggiungere la purè di fragole, mescolare bene e versare il composto in stampini da budino o in un grande stampo. Far raffreddare e tenere in frigo per quattro ore prima di degustare. Servire con il resto della panna montata e le fragole tagliate a metà.
per sei persone 

mercoledì 25 aprile 2012

ROTELLE DI BISCOTTO BICOLORI

Da bambina avevo trovato la ricetta dei biscotti bicolori sul "Manuale di Nonna Papera", una delle mie letture essenziali, di quelle che ti cambiano la vita, infatti se oggi sono qui a scrivere questo blog lo devo a lei, a Nonna Papera e alle sue torte di mele poggiate sul davanzale a raffreddare. Preparavo spesso queste girelle di pasta frolla deliziose e abbastanza facili di fare. Naturalmente, non volevo che qualcuno mi aiutasse nel compito di impastare e modellare, cosicché lavoravo troppo la pasta, col risultato di biscotti duretti e poco friabili. Adesso so che per avere una pasta friabile è necessario lavorare farina e burro, e poi la pasta, il meno possibile, è essenziale non scaldarla. Quindi usate ingredienti freddissimi e ogni tanto passate le mani sotto l'acqua ghiacciata del rubinetto. Verranno dei biscotti favolosi!
Sempre buonissimi a volte si trovano già bell'e pronti in pasticceria, ma vuoi mettere quando te li sei fatti tu? Il sapore dell'infanzia torna prepotente, un po' come la madeleine di Proust. Anzi la prossima volta che li faccio lavoro e scaldo tanto la pasta, tanto per ricordare i biscotti bicolori che facevo da bambina.

300 g di farina - 150 g di zucchero - 200 g di burro - 30 g di cacao amaro - una bustina di lievito - un pizzico di sale - latte

Setacciare la farina col lievito, dividerla in due parti, in una parte unire il cacao, in entrambe aggiungere lo zucchero diviso a metà. Dividere anche il burro a metà, tagliarlo a dadini e unirlo alla farina bianca, lavorare velocemente con la punta della dita fino ad ottenere un impasto granuloso, piano piano unire un po' di latte per ottenere una pasta morbida. Ripetere la stessa operazione con la farina al cacao. Far riposare mezz'ora in frigo. Stendere le due paste e sovrapporle, arrotolarle e tagliare delle fette spesse circa mezzo centimetro. Disporre le girelle in una teglia e far cuocere a 180 gradi per dieci minuti. Servire con un bel bicchiere di latte, per fare la "puccia".
per una ventina di biscotti 

martedì 24 aprile 2012

PANE E BURRO

Pane, burro e sale: questa era la merenda della mia infanzia, ovviamente quando non c'era la focaccia col prosciutto crudo, la cosa che preferisco di più al mondo anche adesso. Gli altri bambini mangiavano la crostata, pane, burro e zucchero, alcuni si avventuravano nel mondo delle Fiesta e del pane e Nutella, io no, preferivo le cose salate. Naturalmente non disdegnavo qualcosa di dolce ogni tanto. Oggi vi propongo una versione adulta del pane, burro e sale della mia infanzia. 

PANE ALL'AVENA


500 g di farina integrale - 125 g di semolino - 70 g di fiocchi di avena - 350 ml (circa) di acqua - 10 di livito di birra - 15 g di sale - 35 g di zucchero di canna scuro - 25 g di burro, olio o margarina - 20 g di latte scremato (anche in polvere, anzi meglio)

Mescolare tutti gli ingredienti in un mixer, salvo il sale. Far lavorare lentamente e col gancio per 5 minuti. Unire il sale e far lavorare ancora cinque minuti, ma a velocità superiore. Dividere la pasta in due palle. Far riposare per 25 minuti. Creare delle palline della dimensione un po' più piccola di una palla da tennis. Far lievitare per 60 minuti. A metà lievitazione spennellare con un po' d'uovo sbattuto con acqua e spolverare con fiocchi d'avena. Passare in forno a 180 per circa 12 minuti o finché il pane non è cotto.

BURRO AGLI AROMI 

Mescolare 125 g di burro molto morbido con un po' di sale, pepe, un cucchiaino di scorzetta d'arancia, un cucchiano di prezzemolo tritato, un cucchiaino di basilico tritato fine, un cucchiaino di mentuccia tritata fine. Mescolare bene e arrotolare il burro a forma si salamino dentro una pellicola trasparente, far rapprendere in frigo. Servire con il pane come stuzzichino per l'aperitivo insieme a acciughe dissalate e bottarga tagliata finissima.

lunedì 23 aprile 2012

IL GIRO DI SUSANNA

Il negozio della Lego a Copenhagen, sogno proibito di ogni bambino
Eravamo un gruppetto di bambini piuttosto vivaci, maschi e femmine, di età variabile tra i cinque e i dieci anni, uniti dalla voglia di giocare fino a collassare. I giochi che sceglievamo erano un classico dell'epoca: "Regina, Reginella", "Campana", "Indiani e Cowboy", "Nascondino", "Un, due, tre stella!" (che è un gioco, e non una trasmissione televisiva) e, dulcis in fundo, "Soldatini" e "Barbie" questi due si alternavano tra i bambini e le bambine, un giorno tutti si giocava con le Barbie, il giorno dopo con i Soldatini. Tutti insieme appassionatamente. Avevamo anche varianti sul tema del tipo "Dolce Forno", "Meccano", "Lego" "Mamma e Figlio" (qui i ruoli erano stabiliti: una femmina (così si diceva) faceva la mamma, un maschio il figlio, mai il contrario) e infine "Scaviamo le fondamenta per costruire una capanna", quest'ultimo effettuato con badili veri e carriole recuperate chissà dove. La capanna non ha mai visto la luce, ma alcuni di noi portano ancora i segni su varie parti del corpo del contatto con un badile mal maneggiato. Giocavamo in strada, e rientravamo a casa solo quando le mamme reputavano che fossimo abbastanza sporchi da meritare un bagno. Di solito molto tardi, così erano più libere di fare gli affari loro questo lo capisco solo ora, ai tempi mi pareva una cosa di grande libertà. Spesso c'erano una o due mamme a controllare che i giochi non degenerassero in cose più violente, cosa che raramente accadeva. Spesso si litigava, e entrambe le parti coinvolte di solito tornavano a casa piangenti, scornate e sconfortate. Spesso il giorno dopo uno dei bambini amici, quasi sempre lo stesso, faceva operazioni di alta diplomazia, per riappacificare le parti in lite, la maggior parte delle volte ci riusciva e si continuava a giocare; a volte no, e un silenzio irreale calava nella via perché se due avevano litigato si smetteva di giocare e si stava ognuno a casa propria. Per questo i litigi erano mal tollerati da quelle parti. Vivevamo in una zona privilegiata, villini e case basse circondate dalla pineta, poco lontani dal mare e con molto spazio a disposizione, ma non eravamo in campagna. Le mamme avevano stabilito dei limiti alla nostra libertà, il nostro perimetro operativo era una sorta di enorme quadrato, quasi rettangolo, forse un pentagono con un lato in meno, insomma non aveva una forma precisa perché non era perfettamente simmetrico: da un lato la ferrovia i cui binari correvano in basso in una sorta di gola tra la pineta e il muro sovrastato da una griglia protettiva di ferro dipinta di grigio, la strada non correva esattamente parallela, ma faceva una sorta di diagonale. Un altro lato, un po' più lungo, sfiorava un enorme campo sabbioso, abbandonato, pieno di sterpi e ciuffi di erba secca, vecchi legni, pietre, era il luogo che noi avevamo eletto ad ospitare la nostra capanna mai nata; un altro lato corto, costeggiava la villa di un ricchissimo palazzinaro che aveva inferriate alle finestre, la villa non il palazzinaro, e una recinzione di ferro alta, piena di punte e decorata con il gelsomino; ogni tanto entravamo in quella casa, che ci incuteva timore, tanto era grande e un po' buia, una sorta di antro con le tapparelle abbassate per il caldo, perché era sempre e solo estate ed era arrivata la figlia del palazzinaro, che era bellissima, elegantissima e aveva la nostra età, simpatica ed ospitale si univa al gruppo, e ci invitava a merende sontuose organizzate e presiedute dalla tata filippina. L'ultimo tratto costeggiava la Darsena, oltre la quale c'era il villaggio dei pescatori dove si arrivava attraversando il ponte, era una zona proibita a tutti noi, le mamme temevano che potessimo cadere e affogare nell'acqua melmosa della darsena. Ricordo perfettamente le spedizioni verso il villaggio dei pescatori, in silenzio, tutti in fila imitando i gesti degli indiani visti nei film western, armati di archi e frecce, mocassini immaginari ai piedi e penne inesistenti piantate sulle nostre teste come veri Piedi Neri, eravamo pronti a nasconderci e a prepararci al lungo assedio del villaggio, tutto questo di nascosto dalle mamme. Ovviamente venivamo scoperti e puniti con svariati giorni di giochi casalinghi, ed ecco che entravano in azione i Lego, Meccano, Dolce Forno, insomma più che una punizione diventava una festa per piccoli delinquenti agli arresti domiciliari. Il nostro quadrilatero aveva anche un nome, sul lato della casa del palazzinaro si chiamava il Giro Corto, perché, lo dice la parola stessa, era più corto dell'altro che, invece, prendeva il nome di Giro di Susanna. Non ho mai saputo chi fosse Susanna, e perché fosse dedicato a lei questo giro lungo. Una volta ho provato a chiedere ai bambini che vivevano lì da più tempo, e che avevano sorelle o fratelli più grandi, ma mi hanno risposto che il Giro di Susanna si era sempre chiamato Giro di Susanna e che nessuno sapeva perché. Insomma una tradizione che si perdeva nella notte dei tempi.
C'era una cosa che amavamo molto fare: andare in bicicletta, era il nostro sport preferito dopo "Scaviamo le fondamenta per costruire una capanna". Ognuno di noi era fornito di una bici, di solito una Graziella un po' vecchiotta, che veniva preparata per le nostre scorribande. Si intende preparata proprio come un motorino o una macchina vengono truccati per correre più veloci, però le nostre bici non dovevano correre veloce, dovevano fare tanto rumore, dovevano avere il suono di un motorino un po' petomane, un po' affetto da tosse asinina. Per ottenere questo suono cacofonico erano necessari accessori ad hoc. Truccare la bici era una cosa seria: bisognava trovare il contenitore da verdura giusto, i preferiti erano quelli blu, un po' alti, e non troppo duri, perché così si potevano piegare più volte, e piegarlo nella maniera più corretta era un 'arte. Essenziale era che la striscia ottenuta dal contenitore non si distruggesse dopo un giro in bici, doveva durare un po' di tempo, anche perché non se ne trovano molti di contenitori blu di buona qualità. Importantissima era la molletta che serviva ad attaccare la striscia piegata alla bicicletta, doveva essere più nuova possibile in modo da avere l'esatta presa sulla forcella posteriore, la presa avrebbe permesso alla striscia di non muoversi e di fare il giusto rumore scoreggiante e tosseggiante. Le nostre madri non erano molto contente del furto dei contenitori, che di solito avveniva non appena questi arrivavano in una casa, ma soprattutto erano disperate per la sparizione delle mollette che si rompevano con grande facilità. Alla fine della preparazione c'era il rito di attacco della striscia: in ginocchio sul retro della bici uno la posizionava facendole sfiorare i raggi nella maniera giusta, un altro in piedi sollevava il retro della bici e insieme si saggiava il rumore facendo girare la ruota. Una volta soddisfatti si inforcava il bolide e si urlava alla mamma "Vado a fare il giro di Susanna, non so quando torno", si partiva pedalando come forsennati, una decina di bici truccate e rumorose. Si pedalva veloci, con l'aria che sapeva di mare, di pino, di sabbia sulla faccia per uno, due, tre, quattro, infiniti giri. A volte uno di noi cadeva, urlava, si sbucciava mani e ginocchia, risaliva e lacrimante, la striscia saltata, la molletta persa tornava mogio a casa, invariabilmente solo. Il resto della truppa proseguiva verso il giro corto, pronto per un altro vertiginoso giro di Susanna, pedalando a perdifiato e cinicamente incurante delle sofferenze fisiche e psicologiche dell'amico.

domenica 22 aprile 2012

sabato 21 aprile 2012

MANTOU - PANINI AL VAPORE (CON LATTE CONDENSATO)

Diciamo la verità esiste una varietà abbastanza consistente di dolci cinesi, tra la cultura del riso del Sud e quella del frumento al Nord si riesce a trovare qualcosa di dolce da mettere sotto i denti. In Cina i dolci non sono, di solito, la conclusione di un pasto, si presentano nell'insieme del pasto senza un ordine preciso. La maggior parte delle volte si servono dolcetti di riso o gelatine come accompagnamento del the. Esistono anche zuppe dolci e, quello che io chiamavo, granite, una cosa che assomiglia molto alla grattachecca romana: ghiaccio raspato con aggiunta di sciroppo. Gli occidentali di solito non amano molto i dolci orientali, e quelli cinesi non fanno eccezione. 
Noi vivamo nel Nord della Cina dove è prevalente la cultura del grano, ricordo che quando andavamo al ristorante il massimo della scelta dei dessert era tra lichees sciroppati e dei panini morbidissimi e caldi serviti con latte condensato, detti Mantou. Il nome di questi dolcetti, grosso modo, si dovrebbe tradurre come Testa dei Barbari. L'altra grande opzione era la frutta fresca, per altro assai rara visto le temperature polari della zona. I panetti morbidi erano, e sono, di solito serviti con latte condensato a parte, in fondo erano un modo discreto, ma non straordinario, di finire cene di solito squisite. Ecco la ricetta, e improvvisamente vi ritroverete proiettati in una cittadina di provincia del Nord della Cina, seduti nel suo ristorante migliore. Ve lo garantisco io. 

300 g di farina - 120 ml di acqua tiepida - un cucchiaio di zucchero - un cucchiaino di lievito di birra disidratato - latte condensato
Immagine tratta da internet di Mantou pronti da mangiare

In una ciotolina o un bicchiere mettere lo zucchero e il lievito insieme a quattro cucchiai di acqua tiepida, lasciar riposare per un quarto d'ora.  Mettere la farina in un'insalatiera e fare un buco nel centro, unire il lievito e il resto dell'acqua lavorare fino ad ottenere una pasta morbida. Trasferire la pasta su una superficie infarinata e lavorarla ancora fino a formare una pasta soffice e liscia. Rimettere la pasta dentro la ciotola e farla riposare coperta, in un luogo tiepido, per almeno un'ora o finché non sia raddoppiata di volume. Trascorso questo tempo con il palmo della mano schiacciare la pasta e coprirla di nuovo. Far lievitare ancora per venti minuti. Infine, rimettere la pasta sul piano di lavoro e impastarla con le mani. Dare forma di piccoli panini di circa 5 centimetri di diametro. Nel frattempo far partire la vaporiera, o mettere cinque/sei cm di acqua in una grande pentola, mettere i panini sulla griglia (o in cestino di bambù o scolapasta per la pentola) lasciando un centimetro di spazio tra di loro. Cuocere per una decina di minuti o finché non sono completamente cotti. Servire caldi con latte condensato a parte.
per dieci panini

venerdì 20 aprile 2012

FONDUTA MONGOLA TRADIZIONALE E CON VARIANTI

Un piatto portato dagli invasori mongoli e che è restato nella tradizione cinese e che, visto che abbiamo parlato di Mongolia Interna questa settimana, mi sembrava doveroso presentare. E' un piatto molto popolare a Pechino-Beijing. La tradizione vuole che la carne sia di montone, la carne preferita dai mongoli, e io ho degustato esattamente questo piatto con il montone, un sapore un po' forte e particolare. Ho provato a fare la fonduta con la carne di agnello, più delicata, o di manzo e viene molto bene, e lo stesso vale per il pollo. Anche una fonduta fatta di solo verdure non è da disdegnare. Il fornello tipico una sorta di braciere largo che termina con un tronco di cono, l'acqua si mette nell'apposita scanalatura attorno al braciere, chiuso, riempito di bricchetti di carbone, il fumo esce dal tronco di cono. Nell'acqua vengono messe spezie varie, che conferiscono un aroma speciale alla carne, ma non sono facili da reperire fuori dalla mongolia. La carne viene poi arricchita con verdure e intinta nelle salse, come una Bouguignonne. Potete usare il fornelletto da Fondue Bourguignonne in mancanza dell'originale, certo si perderà il sapore leggermente affumicato. Spesso nei negozi orientali vendono anche il fornelletto. Qui vi presento la versione con l'agnello, visto che il montone non è tra le nostre carni d'elezione. Se scegliete altro tipo di carne usate le medesime quantità. Lo ammetto, adoro l'agnello, ma in questo caso preferisco la versione con pollo e manzo. 

500 g di coscia d'agnello disossata e tagliata a fettine sottili - 1 o 2 panetti di tofu tagliati a fette - 200 g di cavolo cinese tagliato grossolanamente - 100 g di vermicelli di riso secchi fatti ammollare in acqua calda

per il brodo: un litro e mezzo brodo fatto con l'osso della coscia d'agnello (va bene anche solo l'acqua) - 4 cm di radice di zenzero fresco tagliato sottile - 1 cipollotto tritato grossolanamente - 2 cucchiai di salsa di soia

per le salse e le guarnizioni, tradizionali: 125 g di pasta di sesamo - 125 ml di salsa di soia chiara - 125 ml di aceto di riso (possibilmente rosso, ma è difficile da trovare in Italia) - 125 ml di vino di riso - 60 ml di olio di chili (ricetta più sotto) - quattro cucchiai di aglio in conserva (ricetta più sotto) - un mazzetto di coriandolo tritato

salse e guarnizioni, mie varianti: 1) mescolare in un ciotolina 60 ml di salsa si soia con 30 ml di aceto di riso e 20 ml di succo di lime, unire cipollotto e prezzemolo tritati. 2) mescolare 100 ml di salsa di soia chiara con 30 ml di acqua, unire una punta di wasabi e zenzero tritato fine (decisamente piccante) 3) foglie di lattuga intere e una salsina fatta con 100 g di maionese, 50 g di maionese cetriolini sott'aceto, wasabi e zenzero in conserva.

Arrotolare le fettine di carne, disporle su un piatto di portata. Prepare dei piattini con il tofu e il cavolo. Mettere i vermicelli dentro ciotole da zuppa individuali. Sistemare le guarnizioni e le salsa in piccole ciotole, potete scegliere le tradizionali così da avere idea di che sapore abbia il piatto a casa sua o optare per le mie varianti; oppure scegliere un po' e un po' a piacere. Scaldare il brodo e poi versarlo nella pentola della fonduta, orginale o bourguignonne. Ogni commensale cuocerà la carne, la soia e il cavolo nel brodo, scegliendo la cottura a proprio gusto. Sceglierà la guarnizione e salsa che più gli piace per aromatizzare. Quando tutti gli ingredienti della fonduta sono terminati si verserà il brodo nelle ciotole con i vermicelli, e così si chiuderà la cena.

OLIO DI CHILI 

200 ml di olio di arachidi - 1 cucchiaio di pepe di Sichuan in grani - 2 peperoncini secchi tagliati a fettine

Scaldare l'olio nel wok unire i peperoncini e il pepe. Cuocere a fuoco dolcissimo per una decina di minuti. Raffreddare, far riposare per due o tre giorni e poi filtrare. Si conserva fino a sei mesi in un barattolo chiuso ermeticamente.

AGLIO IN CONSERVA

750 ml di acqua - 6/8 teste d'aglio intere non sbucciate- 250 ml di aceto di riso - 3 cucchiai di zucchero - 1 cucchiaino di sale - 1 foglia d'alloro

Portare l'acqua ad ebollizione, unire l'aglio e togliere dal fuoco. Unire il resto degli ingredienti e lasciar raffreddare. Mettere l'aglio in un barattolo a chiusura ermetica, versare il liquido e far marinare per 3 giorni prima di usare. Al momento di servire asciugare bene.


P.S. Nel caso sceglieste carne diversa da quella d'agnello usate il brodo corrispondente, lo stesso vale per le verdure. 


giovedì 19 aprile 2012

POLLO FRITTO CON SALSA AGRO-PICCANTE COME IN CINA

La frittura è un denominatore comune a tutte le culture, o quasi, sono rare le nazioni che non friggono. Questa è la versione del pollo fritto che si mangia in una regione della Cina, è uno stile di cottura particolare prima il pollo è fatto bollire a fuoco lento e poi fritto, si serve con una speciale salsa leggermente agro-piccante. Il fatto di farlo bollire permette di tenere il pollo a contatto col grasso per un tempo inferiore rispetto al solito, con grande vantaggio per il conteggio delle calorie. I cinesi cuociono questo pollo intero, così vuole la tradizione, se volete potete provare a friggerlo a pezzi, non garantisco il risultato finale. I cinesi sono anche ghiotti d'aglio, se non vi piace non mettetelo o riducete la quantità. 

1 pollo di circa un chilo e duecento grammi - 1 cipollotto, solo la parte bianca, tagliato sottile - 2 spicchi d'aglio tagliati sottili e fritti - 2 cucchiaini di sale olio per friggere 
per la salsa: 250 ml di brodo di pollo - 125 ml di aceto di riso - 1 peperoncino senza semi e tagliato fine - 4 spicchi d'aglio a fettine - 1 cucchiaino di pasta chili - 1 cucchiaio di salsa di soia - mezzo cucchiaino di sale 

Strofinare dentro e fuori il pollo con il sale e farlo riposare circa mezz'ora. Portare abbondante acqua ad ebollizione, unire il pollo e far cuocere a fuoco bassissimo per mezz'ora. Scolare il pollo asciugarlo perfettamente sia all'interno che all'esterno e farlo riposare in un posto asciutto per qualche tempo, in modo che si asciughi completamente. Poco prima di servire servire scaldare l'olio nel wok, accertarsi che il pollo sia perfettamente asciutto cosicché la frittura sarà croccantissma. Mettere tutto il pollo nel wok col il petto verso  il basso friggere per cinque minuti. Girare il pollo e cuocerlo dall'altro lato per cinque minuti. Togliere il pollo dalla frittura, tagliarlo a pezzettini e metterlo sul piatto di portata. Scolare tutto l'olio di frittura dal wok e lascirne solo un velo, unire tutti gli ingredienti della salsa e far sobbollire per un paio di minuti. Irrorare il pollo con  la salsa calda, decorare con l'aglio fritto e cipollotto e servire.

mercoledì 18 aprile 2012

RISO SALTATO VEGETARIANO

Un piatto classico della cucina cinese: il riso. Un altro classico: il riso saltato. Questo è particolarmente adatto ai vegetariani più stretti e ai vegani non presenta né uova, né carni e i latticini non sono un ingrediente presente nella cultura gastronomica cinese. 

per il tofu: 1 panetto di tofu molto soda - 1 cucchiaino di salsa di soia  - 1 cucchiaio di olio vegetale -

per il riso: 4 tazze di riso già bollito e freddo - 3 asparagi tagliati a pezzetti di 2 cm - 1 peperone verde (friarielli) - 1 cucchiaio di fagioli salati - 1 cucchiaio di piselli cotti - 1 cucchiaio di fagioli azuki bolliti - 50 g di germogli di soia - 1 cucchiaino di sale - pepe - 1 peperoncino tagliato a fettine e senza semi - 2 spicchi d'aglio - mezza cipolla tritata.

Marinare il tofu tagliato a fettine nella salsa di soia per un quarto d'ora. Scaldare l'olio e saltare il tofu in padella finché non è bello croccante.
Sgranare il riso. Scaldare un cucchiaio di olio nel wok e saltare per un minuto gli asparagi, il peperone tagliato a striscioline, i fagioli e i germogli su fuoco vivace. Unire il riso e cuocere per un altro minuto. Salare pepare e sistemare nel piatto di portata. Mettere il resto dell'olio nel wok e soffriggere il peperoncino, la cipolla, l'aglio per un minuto mettere al centro del riso saltato e contornare con il tofu fritto. Servire subito.
per quattro persone

P.S. Come al solito: tutti gli ingredienti esotici elencati si trovano nei negozi di specialità orientali. 

martedì 17 aprile 2012

VERMICELLI DI RISO NEI FAGOTTINI DI LATTUGA

Questo è un piatto di ispirazione cinese a base di vermicelli di riso, le famose Glass Noodles, ed è leggero e rinfrescante, ideale per cominciare un pasto. Questo tipo di Noodles hanno un gusto delicatissimo e crude sono molto fragili, di conseguenza non sono facili da preparare in piccole quantità; meglio quindi scegliere di prepararne tutto un pacco, che di solito ne contiene una grande matassa, e poi, in caso avanzassero, usare il resto nei giorni successivi per altri piatti visto che si conservano piuttosto bene in frigorifero, dentro ad un recipiente a chiusura ermetica. 

100 g di vermicelli di soia secchi - 12 grandi foglie di lattuga, possibilmente iceberg, pulite - 2 carote grattugiate - 4 ravanelli tagliati a striscioline - 4 cipollotti a fettine sottili - 1 zucchina grattugiata - qualche gamberetto cotto (facoltativo) - 3 cucchiai di burro di arachidi - 2 cucchiai di aceto di riso - salsa di soia - olio di mais
per la salsa: 4 cucchiai di aceto di riso - 1 cucchiaio di miele millefiori o dal sapore delicato - 1 cucchiaio di olio di sesamo - una punta di cucchiaino di salsa chili - radice di zenzero grattugiata a piacere

Mettere i vermicelli in un'insalatiera di ceramica, versare acqua bollente e far riposare per 20 minuti cioè fino a quando i vermicelli non siano diventati morbidi. Scolare e tagliarli a pezzi di lunghezza non inferiore ai 6 centimetri. Mescolare il burro di arachidi con l'aceto di riso e la salsa d'ostriche, se il composto risultasse troppo compatto aggiungere un po' d'olio per renderlo un po' più liquido. Unire la salsa ai vermicelli e mescolare bene, in modo da impregnarli tutti, a questo punto irrorare con la salsa si soia a piacere. Far riposare al fresco per almeno un quarto d'ora prima di portare in tavola. Al momento di portare in tavola aggiungere tutti gli ingredienti ai vermicelli, mescolare bene. Sevire con le foglie di lattuga e la salsa a parte. Ogni commensale farcirà le foglie di lattuga con i vermicelli, le arrotolerà a formare un piccolo involtino e si servirà della salsa a piacere.
per dodici involtini 


lunedì 16 aprile 2012

POLLO PER TUTTI A HOTHOT

Il cinese è una lingua difficile. Iniziare con una banalità è sempre meglio, il racconto può solo migliorare, però è vero il cinese non è per niente un lingua facile. Parlo svariate lingue, alcune imparate sul campo e dimenticate subito dopo l'abbandono del campo. Per esempio il turco. Ho dei vaghi ricordi di come si faccia la spesa nella lingua di Istanbul, ogni tanto la nebbia si alza sulle frasi necessarie per ordinare al ristorante o per contrattare un tappeto con un venditore. A pensarci bene riesco ad arrivare a bofonchiare qualche parola di turco sforzandomi un pochino, altre lingue scorrono lisce come l'olio dopo averle imparate sur place. Col cinese è stata tutta un'altra storia. Le lingue tonali non sono facilissime per noi occidentali e bisogna andare a scuola per riuscire a dire "buongiorno" nel modo giusto, cioè senza che qualcosa si frapponga tra la cortesia e l'insulto. Non sono per niente rare le volte in cui la lingua scivola e, via, si parte con le scemenze. Ricordo perfettamente una volta in un mercato, eravamo un gruppetto e stavamo facendo la spesa, ho visto una cosa che mi interessava, un oggetto di cui ho un vago ricordo, l'ho indicato e ho usato la parola "questo", seguito dalla domanda  "quanto costa?", ovviamente in cinese; ecco, subito dopo i miei interlocutori hanno cominciato a ridere, anzi hanno cominciato a rotolarsi per terra dal ridere. Probabilmente avevo detto qualcosa che assomigliava a "mi metto nuda davanti a voi e ballo la rumba", altrimenti non mi spiego il motivo di tanta ilarità; temo ci siano rimasti malissimo che io non lo abbia fatto, denudarmi e ballare intendo. Dopo svariati minuti e molte risate dopo sono comunque riuscita a comprare l'oggetto. La volta successiva mi sono vendicata esordendo con un "Ciao Pistola, ti butta bene?", i miei amici del banchetto hanno riso nel riconoscermi ignari di essere stati insultati. D'accordo, non si fa, è maleducato dare del pistola a qualcuono che non capisce, ma non ho saputo resistere alla piccola, futile vendetta. Per questo motivo con le mie amiche usavamo pochissimo il cinese nonostante provassimo come pazze ad imparare la lingua. Forse se mi fossi fermata più a lungo avrei imparato a dire "come stai?" senza suscitare l'ilarità dei miei interlocutori.
I primi tempi fare la spesa, ordinare al ristorante o al banchetto lungo la strada non erano operazioni semplici, prima di tutto perché vivevamo in una zona rurale e poco avvezza alle lingue straniere e, poi, perché la Cina di allora (1998) non era la Cina di oggi, un po' più aperta verso l'Occidente. In quel periodo, comunque, c'erano momenti memorabili nei quali, noi occidentali, ci industriavamo con gesti al limite della maleducazione pur di farci capire senza farci ridere troppo dietro. Ecco alcuni esempi di cinese gestato (cioè, ci si esprime senza parole): il gesto dell'ombrello su entrambe le braccia, seguito dal gesto delle forbici per far capire che volavamo una manica più lunga o più corta; o facciato (ovvero ci si esprime solo con la faccia): guance gonfie e labbra che soffiano per comprare un pallone (qui si può aggiungere anche il gesto di tirare un calcio) o dei palloncini per una festa (qui è facoltativo fingere ilarità). Ecco, ricordo esattamente quella volta al mercato quando volevo l'anatra intera aperta a libro e schiacciata  con il batticarne. Ho provato a fare segno di "usa la mannaia e appiattisci 'sto uccello", ma è stato inutile. Allora, in pieno mercato, ho preso un foglio di giornale, l'ho ripiegato a forma di qualcosa che potesse sembrare un uccello, l'ho messo a terra e ho comiciato a saltarci sopra come una forsennata. Sembravo pazza, ma che ci crediate o no, quando ho tirato su la poltiglia di carta, la mia anatra è stata aperta a libro e schiacciata con il batticarne. Miracoli dell'espressività italiana e intelligenza intuitiva cinese.
Dopo qualche mese che mi ero trasferita abbiamo deciso di fare un viaggetto tra ragazze. Ci siamo messe insieme, un gruppetto piccolo ma assortito: una mamma con la figlia piccolissima (3 anni), una mamma senza figlia, una nonna (della treene) e una ragazza senza marito al seguito. Un variegato e divertente mondo di età. Abbiamo affittato un pulmino e siamo partite alla volta della Mongolia Interna Cinese, il posto per indenderci dove Gengis Khan e il suo esercito sfrecciavano sui loro cavalli cercando di conquistare il mondo conosciuto e dove c'è la tomba del celebre condottiero mongolo. Una delusione terribile. Per delusione terribile, intendo la tomba del condottiero, che è un cumulo di terra senza arte né parte, brullo e privo di qualsiasi fascino, lui non l'ho conosciuto. Tutt'altra cosa alcuni angoli della capitale della Regione: Hothot (non si pronucia come l'inglese hot=caldo con la o rotonda, bensì qualcosa come Huohot con le due acca molto, molto aspirate). Ce la siamo spassata tra noi donne di ogni età, sul nostro pulmino abbiamo corso lungo la campagna brulla, desolata e asciutta come un deserto, punteggiata qua e là da quello che rimaneva della torrette di avvistamento della vera Grande Muraglia, niente a che vedere con quella patinata vicino a Pechino (anzi, Beijing come si dovrebbe dire); siamo salite e scese dall'auto sotto un sole bruciante, abbiamo scattato fotografie e mangiato cose strane, di cui ignoriamo ancora oggi la provenienza, nel senso che forse abbiamo mangiato grilli fritti e non ce ne siamo accorte, tanto non sapevamo leggere i cartelli, e l'autista del pulmino parlava a malapena l'inglese necessario a farsi capire. Siamo, tra le altre cose, sopravvissute alle profferte di sesso a pagamento arrivate nottetempo nelle nostre stanze, lì sì che l'inglese veniva utilizzato con proprietà, ma la risposta non veniva mai capita a fondo. Infatti, il telefono continuava a squillare finché noi, esasperate, non staccavamo la cornetta chiudendola in un cassetto. Può essere divertente immaginare una voce sensuale nella notte che dice "Sex, good sex cheap, cheap" (sesso, buon sesso, economico economico) e all'altro capo del filo c'è una donna eterosessuale che dorme da un paio d'ore. Noi non ci siamo molto divertite al momento di dover riprendere sonno nel letto dell'albergo, in puro design regime comunista: spartano, funzionale e un filino scomodo. Comunque, siamo sopravvissute a tutto, anche ai pasti. A mezzogiorno i banchetti che punteggiavano ogni angolo della città e, meraviglia, della campagna erano la nostra ancora di salvezza. Una sera siamo andate in un ristorante dove servivano solo fonduta mongola, e lì è stato semplicissimo ordinare. Un'altra sera siamo andate in un ristorante elegantissimo, grandissimo e in un orario poco ortodosso: le 19, ora di cena per una bambina di tre anni, ma non per il resto dell'umanità. Siamo entrate in un immenso salone arredato con grande gusto: tende, pareti, tovaglie tutti declinati nei toni del crema e blu; tanti i tavoli rotondi, in Cina era diffcilissimo trovare tavoli quadrati allora, non so se oggi sia diverso, e le sedie rivestite di seta blu con lo schienale alto. Uno spettacolo vuoto e silenzioso, nessun avventore a parte noi. Si sono avvicinate cinque cameriere che, con gentilezza ed eleganza, ci hanno accompagnate al tavolo, camminavano davanti a noi, piccole figure vestite di seta cobalto con disegni dorati. Ognuna ha preso la nostra giacca, l'ha messa sullo schienale e l'ha coperta con uno speciale rivestimento zippato per proteggerla da eventuali macchie. Ci hanno portato il menu, un menu grande come un lenzuolo, ricco come solo un menu cinese sa essere, pieno di piatti, sfizi, delicatezze, specialità. Un menu rigorosamente scritto in ideogrammi, coi prezzi in ideogrammi, con le spiegazioni esclusivamente in ideogrammi. Insomma illeggibile per noi che non leggevamo neanche il basico, figuriamoci il cinese stretto. Timidamente abbiamo chiesto se lo avessero in una lingua diversa, le cameriere si sono limitate a guardarcie e a sorridere placide. Sconsolate abbiamo fatto scorrere lo sguardo intorno per controllare se fossero arrivati altri ospiti, così avremmo potuto avvicinarci al tavolo, sbirciare cosa stessero mangiando e, indicando, ordinare lo stesso piatto. Niente, l'ora era troppo antelucana persino per una città meno mondana di Shanghai e Pechino (ooops, Beijing). Che si fa, ci chiedevamo, mentre le cameriere stavano ritte e silenziose, ognuna impettita dietro alla sedia di una commensale. Un commensale, una cameriera questa era la politica del ristorante. Una sesta cameriera, con un vassoio, avrebbe poi fatto avanti indietro dalla cucina per portare le pietanze e riportare i piatti sporchi. Un servizio da re. A noi sarebbe piaciuto tanto mettere qualcosa sotto i denti, ma come fare per ordinare? Cosa vogliamo mangiare, ci siamo chieste. Pollo, massì, pollo. Quanti piatti? Diciamo uno a testa e che Dio ce la mandi buona, speriamo che arrvino diversi. I cinesi sono molto, molto intelligenti ed intuitivi, stava a noi farci capire. Ci siamo guardate, abbiamo guardato una delle cameriere che ha sorriso e si è avvicinata un po'. Allora, e solo allora, la mia amica si è alzata, ha fatto il gesto di mangiare, ha mostrato il menu e la cameriera ha annuito aspettando il resto. La mia amica, una bella donna, alta bionda, elegante si è messa su una gamba sola, ha cominciato a camminare muovendo la testa avanti e indietro, ha raspato anche un po' col piede, e infine ha mimato il gesto delle ali; poi si è ricomposta e ha fatto il gesto per il numero sei. Senza muovere un muscolo facciale, tranne il sorriso d'ordinanza, la cameriera è andata in cucina. Sono arrivati sei magnifici piatti di pollo, uno diverso dall'altro, uno migliore dell'altro. Un'esperienza magnifica. Per fortuna che la cena si è protratta a lungo e che sono arrivati altri clienti, così abbiamo potuto assaggiare anche piatti di manzo, anatra e verdure.

sabato 14 aprile 2012

APERITIVI DI SOPRAVVIVENZA - SCREW DRIVER E SPIEDINI DI PROSCIUTTO

Screwdriver, ovvero cacciavite, ecco la versione meno colorata, ma non meno buona, dell'aperitivo di ieri. Di nuovo un drink con poche calorie e molto gusto, che permette di stare in compagnia all'ora dell'aperitivo. Vodka e succo d'arancia accompagnati da prosciutto crudo e melone, e quando non è stagione si può omettere il melone o sostituirlo con i fichi, a chi piace anche con l'ananas o, per coloro i quali fossero contrari all'abbinamento con la frutta, semplicemente con dei pomodorini. Sano e pochissimo calorico.

SCREWDRIVER (135 calorie)

100 ml di spremuta d'arancia (quando non è stagione usare un succo d'arancia di buona qualità) - 50 ml di vodka - una fetta d'arancia per decorare

In un bicchiere da bibita (highball) mettere dei cubetti di ghiaccio, unire i due ingredienti e mescolare bene. Decorare con la fetta d'arancia.

SPIEDINI DI PROSCIUTTO E MELONE (prosciutto 20/30 calorie per fetta o 150 calorie per 100 g/ melone 33 calorie per 100 g)

100 g di prosciutto affettato non troppo sottile - 100 g di melone a cubetti - pepe - spiedini

Tagliare a metà le fette di prosciutto e arrotolarle. Mettere una prima fetta sullo spiedino, aggiungere un cubetto di melone e sovrappore una fetta di prosciutto. Continuare con un altro spiedino. Quando gli ingredienti sono terminati spolverare con un po' di pepe macinato al momento. Servire.






venerdì 13 aprile 2012

APERITIVI DI SOPRAVVIVENZA - GARIBALDI E VERDURE GRIGLIATE

Un colore bellissimo, come la camicia rossa dell'eroe dell'Unità d'Italia. Spesso semplicemente chiamato "Campari e Succo d'Arancia" si tratta un cocktail poco calorico e con un piacevole retrogusto amaro. Per chi fosse interessato: il preferito di mio marito. La presenza del succo d'arancia regala al cocktail anche quella parvenza di "sanità" che non guasta, come dire "la medicina e il veleno" parole che di solito definiscono il Bloody Mary. Le verdure grigliate, poco caloriche soprattuto se poco condite, si sposano perfettamente con il cocktail. 

GARIBALDI  (115 calorie)

100 ml di di spremuta d'arancia (fuori stagione usare succo d'arancia di ottima qualità) - 50 ml di Campari - una fetta d'arancia per decorare

Preparare direttamente il cocktail in bicchiere da bibita alto e stretto (highball), mettere il Campari e poi aggiungere il succo d'arancia molto freddo. Mescolare bene. A chi piace unire dei cubetti di ghiaccio. Sevire decorato con una mezza fetta d'arancia.

VERDURE   GRIGLIATE (100 g = 50 calorie, poco meno o poco più dipende dalla quantità di olio)

una zucchina - una melanzana - un peperone - radicchio- insalta belga - timo, origano e/o prezzemolo - uno spicchio d'aglio (facoltativo) -  olio evo - sale pepe

Affettare le zucchine a fette alte mezzo centrimetro, fare lo stesso con le melanzane. Tagliare in quarti il peprone e il radicchio, l'insalata belga invece tagliarla in metà. Preparare la griglia, a carbonella o elettrica, e salare leggermente le verdure e cuocerle senza condimento. Quando sono pronte metterle in un piatto di portata, aggiustare di sale pepe, mettere l'aglio a fettine, una delle erbe aromatiche a scelta (o con una scelta di due) e, quando sono ancora tiepide, irrorare con l'olio. Mescolare bene. Far riposare una mezz'ora prima di servire.

giovedì 12 aprile 2012

APERITIVI DI SOPRAVVIVENZA - BLOODY MARY/MARIA E TARALLI

In cima alle mie preferenze di cocktail si collocano il Margarita e la Caipirinha, purtroppo sono super calorici e quando sono a dieta, o voglio contenermi, non li bevo mai. Uno dei miei cocktail preferiti in questo momento di morigeratezza è senz'altro il Bloody Mary, ma nella versione con la Tequila che modifica il nome di Bloody Maria. Fantastico. Come accompagnamento sono perfetti i taralli, leggeri e gustosi con pochissime calorie. 


BLOODY MARIA (110 calorie)
120 ml di succo di pomodoro - 40 ml di Tequila di buona qualità (stessa quantità di Vodka per il tradizionale Bloody Mary) - un cucchiaino di succo di lime (o limone) - 1 cucchiaino di salsa Worchestershire - qualche goccia di tabasco - sale pepe e/o sale al sedano (se piace)

In un Boston o in un bicchiere grande, alto e capiente mettere tutti gli ingredienti e unire il ghiaccio, mescolare qualche secondo finché la miscela sia ben fredda, filtrare il ghiaccio. Servire in un bicchiere alto e stretto (tumbler) decorato con un gambo di sedano. Chi lo desidera può aggiungere del ghiaccio nel bicchiere, io preferisco di no.

TARALLI (50 g 190 calorie circa)
500 g di farina 00 - 150 ml di vino bianco - 125 ml di olio evo - 50 ml di acqua - 10 g sale - semi di finocchio a gusto (almeno un cucchiaio)

Setacciare la farina in una ciotola capiente, unire il sale, i semi di finocchio l'olio, il vino e l'acqua. Impastare finché i liquidi si siano assorbiti, passare sulla spianatoia e lavorare l'impasto per svariati minuti, fino a quando è liscio ed elastico, dovrà essere piuttosto consistente. Dopodiché coprire con la pellicola e far riposare al fresco una mezz'oretta/un'ora. Dividere l'impasto e con le mani fare dei "grissinetti" sottili di otto centimetri di lunghezza piegarli e chiuderli formando una specie di nodo. Nel frattempo portare ad ebollizione dell'acqua e quando sono prondi tuffare i taralli nell'acqua, una dozzina per volta, circa. Quando i taralli verrano a galla scolarli e farli asciugare per un paio di minuti su un canovaccio. Dopodiché metterli sulla placca del forno e farli cuocere in forno a 200 gradi per una mezz'ora. Far raffreddare prima di degustare. 

mercoledì 11 aprile 2012

APERITIVI DI SOPRAVVIVENZA - ROSSINI E GUACAMOLE

Dopo i gozzivigli pasquali questa settimana vi presento un abbinamento drink e sfizio per sopravvivere ad eventuali inviti all'aperitivo, che magari non accettereste pensando che sarebbe un momento per ingurgitare troppe calorie. Per ogni drink metterò il contenuto calorico vicino al nome, così vi potrete regolare. Un bicchiere di vino contiene 85 calorie ed è forse la cosa alcolica meno calorica che potete bere, insieme al Rossini o Bellini (90 calorie). 
E' la stagione delle fragole e, secondo me, il cocktail migliore che si possa bere in questo periodo è senz'altro il Bellini. Vino frizzante o Champagne con purè di fragole fresche, pochissime calorie per un drink delizioso. Ovviamente non abusatene, se siete a dieta ferrea, ma questo vi permetterà di uscire con gli amici e di non fare la figura dei tristi che sgranocchiano un gambo di sedano e bevono un bicchiere d'acqua con sguardo languido.

BELLINI ROSSINI (85 calorie)

120 ml di spumante, vino frizzante o Champagne - 60 ml di polpa di fragola frullata

Versare direttamente in una flute la puré di fragola e unire piano piano il vino. Mescolare. Servire decorato con un fragola.
per un bicchiere  

GUACAMOLE (70 calorie per tre cucchiai, un po' di più col pomodoro)

1 avocado maturo - 1 lime - mezza cipolla di Tropea o Rossa - coriandolo fresco tritato - sale - tabasco - 1 pomodoro (facoltativo)

Mettere l'avocado sbucciato e tagliato a pezzi in una ciotola unire il sale e il succo di lime. Lavorare con un pestello di legno (tipo quelli per il mortaio) fino ad ottenere una crema "granulosa". Aggiungere la cipolla, il coriandolo e il tabasco, mescolare bene. Trasferire l'avocado in una ciotola di portata e livellare bene il composto, inserire nel mezzo il nocciolo dell'avocado (questo è il modo tradizionale messicano per non far annerire il guacamole, è forse un trucco inutile ma funziona benissimo) coprire con la pellicola e tenere in fresco fino al momento di servire. Se si desidera poco prima di servire privare dei semi un pomodoro, tagliarlo a dadini e unirlo al guacamole.
per quattro persone


P.S. Se servite il Guacamole con Pane Azzimo risparmierete molte calorie, se se siete al bar non usate le Chips di Mais, sono super caloriche, scegliete magari del pane Carasau o del pane tostato. Non eccedete, è ovvio. 

martedì 10 aprile 2012

PROSSIMAMENTE

Questa settimana farò la maestrina con la penna rossa e vi insegnerò come uscire a prendere un aperitivo anche stando a dieta. Beh, diciamo riuscendo a contenere le calorie. E' vero, si può...

domenica 8 aprile 2012

LE RICETTE DI PASQUA - PICCOLI PLUM CAKE DI ZUCCHINE E FAVE

BUONA PASQUA

HAPPY EASTER

BONNE PAQUES

FELIZ PASCUA

BOA PASCUA

FROHE OSTERN 






Sformatini ideali da portare al Pic-Nic di Pasquetta. E' la stagione delle fave, usare quelle più grosse che sono meno buone da mangiare crude, se sono molto grosse, una volta sgranate, sbucciatele e usate solo la parte interna della fava. La consistenza dei Plum Cake è tra lo sformato e una tortina, si possono fare il giorno prima, si conservano abbastanza bene. Se non avete le forme mingnon usate una forma da plum cake normale, ovvimente farete cuocere un po' più a lungo circa 45 minuti, oppure potete usare gli stampini da muffin o dei ramequins rivestiti di carta forno, il tempo di cottura dipende dalla grandezza dello stampo. 

2 piccole zucchine – 100 g di  ricotta  – 2 cucchiai pieni di farina – 60 gr di fave cotte – 1 bustina di lievito – 2 uova – 2 cucchiai di maizena – 3 cucchiai di parmigiano – 2 cucchiai di olio

Lavare le zucchine, grattugiarle e farle riposare dentro un colino per qualche minuto. In una terrina mescolare la farina, la maizena, il lievito e il parmigiano. Salare pepare. Poi aggiungere il formaggio e le uova e l’olio. Quando la mistura è liscia aggiungere le zucchine e le fave. Mescolare e versare in piccole forme da plum cake rivestite di carta forno. Cuocere in forno a 180 per 25 min. 

sabato 7 aprile 2012

RICETTE DI PASQUA - UOVA RIPIENE ALLE UOVA DI SALMONE

Un classico di Pasqua, le uova. Un classico della tavola della mia infanzia, le uova ripiene. Erano il piatto forte di mia mamma quando faceva le cene in piedi o voleva un antipasto rapido, ma elegante. E all'epoca erano molto eleganti le uova ripiene. Le consiglio per aprire in allegria il pranzo di Pasqua, qui propongo la versione con le uova di salmone, ma si possono proporre in molti modi: con un po' di tonno mescolato nel ripieno e un cappero come decorazione, un po' di pancetta affumicata passata in padella fino a diventare croccante e poi sbriciolata e, ancora, un quartino di carciofino o pomodoro sottolio, paprika affumicata e prezzemolo, e mille altre delizie. A voi scatenare la fantasia. 

12 uova grandi - 80 g di maionese possibilmente fatta in casa - 1 scatola di uova di salmone - 20 g  di burro  - 2 cucchiai di senape di Dijon (o altro) - 50 ml di panna fresca- 1 cucchiaio bello pieno di erba cipollina tritata (più qualche rametto per decorazione) - sale pepe

Mettere le uova in una pentola capiente e coprire con acqua fredda. Portare ad ebollizione, abbassare la fiamma e far cuocere le uova per 8 minuti. Trasferire le uova in una grande ciotola con acqua e ghiaccio e far raffreddare completamente (modo veloce... ci vorranno 10 minuti). Sgusciare le uova e tagliarle a metà. Togliere in tuorli trasferirli in una ciotola e unire il burro fuso (questo renderà il ripieno liscio e allo stesso tempo aiuterà ad avere consistenza), la maionese, la senape, l'erba cipollina, il sale e pepe. Mescolare bene. Mettere il ripieno nella tasca da pasticcere (o con l'aiuto di un cucchiaino), riempire gli albumi. Prima di servire montare la panna e metterne la punta di un cucchiaino sul centro del uovo. Decorare con le uova di salmone e un piccolo filo di erba cipollina.
per ventiquattro uova


P.S. Eliminare la panna nel caso degli altri ripieni, vale solo per uova di lompo, salmone, caviale. 



venerdì 6 aprile 2012

PATATE CARAMELLATE

Ecco una ricetta veramente danese, sono una specialità. A noi può sembrare strano l'abbinamento patate/zucchero, ma a me piace molto. Queste patate vanno benissimo anche come contorno dell'agnello pasquale o per chi non vuole mangiare l'agnello per qualsiasi cosa scelga come alternativa. E' tradizione in Danimarca servirle con l'anatra arrosto, piatto di Natale. 

24 patate novelle – 125 g di zucchero – 125 di burro fresco di ottima qualità – sale pepe

Cuocere le patate in acqua bollente salata, 15 minuti dall’ebollizione circa, finché non sono tenere. Sbucciarle quando sono ancora tra il caldo e il tiepido. Scaldare lo zucchero in una padella abbastanza grande da contenere la patate, quando diventa dorato. Aggiungere il burro e le patate senza affollare troppo la padella. Muovere la padella per far rotolare le patate dentro al burro e zucchero finché non sono completamente coperte. Toglierle e metterle su un piatto di portata caldo. Ripetere eventualmente l’operazione con le altre patate. 

giovedì 5 aprile 2012

FRIKADELLEN - POLPETTINE DANESI VERSIONE ITALIANA

Le frikadellen sono le amatissime polpettine danesi. Dopo il Smorrebrod (perdonetemi, ma da queste parti la o sbarrata, tipica dell'alfabeto nordico,è introvabile) sono il piatto nazionale. Ne esistono di tutti i tipi, di pesce e verdure, ma le più tradizionali sono, di carne trita di vitello e maiale. Si trovano dappertutto: nei baracchini che sfamano i camionisti, nei ristoranti e nelle case più chic. Vengono servite spesso, anche, e forse soprattutto, quando ci sono amici a pranzo o cena. I danesi amano le polpette e, come chi segue il blog con regolarità sa, le amo anch'io. Questa è la mia versione del piatto che l'amica di mia mamma preparava quando andavamo a pranzo da lei. La tradizione vuole che si servano con patate bollite e cavolo rosso in agrodolce, ma io ve le propongo con un altro contorno, più originale, visto che è la stagione della patate novelle. Troverete la ricetta domani.


250 g di carne di maiale tritata - 400 g di carne di vitello tritata - 1 cipolla dorata tritata - 2 uova - 2 cucchiai di farina - una bottiglietta o lattina di birra, magari danese - 40 g di burro - 1 limone - cannella - noce moscata - pangrattato - olio sale pepe

Far stufare a fuoco bassissimo la cipolla con un po' di olio e qualche cucchiaio di acqua, ci vorranno circa 10 minuti. Mettere la carne in una grande ciotola, unire le uova, le spezie e il pepe, salare e lavorare bene con le mani, aggiungere il pangrattato e, infine, la cipolla tiepida, lavorare ancora un po'. Far riposare in frigo per mezz'ora. Passato questo tempo creare delle polpettine grandi poco più di una noce, infarinarle e passarle nella padella dove ci sarà il burro fuso. Cuocere finché non sono dorate da entrambi i lati, circa 15 minuti. A questo punto versare le birra mescolata con il succo di limone, cuocere a fuoco basso finché la salsa si sarà addensata e avrà assunto una consistenza sciropposa. Servire con patate bollite al prezzemolo o con le patate caramellate di cui presento la ricetta domani.
per sei persone 

mercoledì 4 aprile 2012

PENNETTE CON SALMONE, ANETO, RAFANO E PEPE ROSA

La pasta non è affatto un ingrediente nordico, ma, chiedo venia, il blog è italiano e siamo autorizzati a modificare le tradizioni per adattarle a noi. Salmone, aneto e rafano invece sono proprio ingredienti tipici del Nord Europa e di tutta quella porzione di nazioni che si affaccia sul grigio, suggestivo ed evocativo mare del Nord. Qui si incontrano a formare una pasta dal sapore particolare ed incosueto. A voi giudicarla.

360 g di pennette - 150 g di salmone di ottima qualità - 200 ml di panna - mezza cipolla bionda tritata fine - un cucchiaio di aneto tritato - un cucchiaino di rafano fresco grattugiato - un cucchiaino di pepe rosa - olio sale pepe

Portare ad ebollizione abbondante acqua salata. In una padella capiente stufare la cipolla con un paio di cucchiai di olio e un paio di cucchiai di acqua, unire il salmone e far insaporire qualche istante, infine aggiungere la panna e farla scaldare. Salare e pepare. Quando l'acqua bolle buttare le pennette e scolarle molto al dente. Prima di scolare prendere un mestolino di acqua di cottura della pasta e versarla nella padella, mescolare bene, unire il rafano, l'aneto, il pepe e la pasta. Saltare per qualche istante finché tutto non si sia ben amalgamato. Servire subito decorando con qualche grano di pepe rosa e rametti di aneto.
per quattro persone

P.S. Non è facile trovare il rafano fresco, ma in commercio si trovano molti tipi di rafano già grattugiato e pronto per l'uso e di solito sono di buona qualità. Usare la stessa quantità di rafano in conserva. 

martedì 3 aprile 2012

L'INSOSTENIBILE TRASPARENZA DELLE VETRINE A COPENHAGEN

Una vetrina perfetta a Copenhagen
Premetto che sono una grande camminatrice, di quelle instancabili, che, un piede dietro l'altro, macinano chilometri e chilometri senza accorgersene. Ho preso quest'abitudine da piccolissima, quando circumnavigavo il tavolo di rame che i miei genitori avevano messo tra due divani e una poltrona arancione, le manine appoggiate al bordo giravo, giravo, giravo tutt'attorno per interi pomeriggi. Mia madre si è sempre chiesta come potessi fare girotondo per ore senza avere nemmeno un filo di nausea, divertendomi. Non mi annoiavo, perché immagino che facessi quello che faccio adesso: penso agli affari miei, a quello che ho mangiato a pranzo, ad un racconto da scrivere, ad una nuova avventura; all'epoca forse ero un po' più terra terra e pensavo a come raggiungere il gioco rimasto piantato sotto al tavolo, dove c'erano le sedie di teak che ricordavano quelle di Arne Jacobsen, o a come smontare un'intera scatola di biscotti polverizzandone il contenuto. Adesso che ci penso la poltrona arancione, quella della mia infanzia, un magnifico modello degli anni cinquanta, senza braccioli, le gambe di metallo scuro, di design nordico, può essere stata la causa scatenante di questo racconto. Sì pensandoci bene, se non fosse stato per quella poltrona e le sedie attorno al tavolo dei miei, che oggi sono attorno al mio tavolo, non sarebbe successo quello che è succeso. Adoro camminare, adoro il cibo e la cucina, ma c'è un'altra cosa che solletica la mia mente: il design, soprattutto di modernariato. Vado pazza per le cose degli anni quaranta, cinquanta, sessanta e perfino settanta, non disdegno le cose anni ottanta, ma nemmeno quelle dei novanta mi sfuggono, anche se fossero dell'anno tremila, ecco, io impazzirei, basta che sia un oggetto di design. E allora, cosa c'è di meglio che un tuffo tra gli oggetti del desiderio in un paese che ha fatto del design uno dei suoi fiori all'occhiello, dove ogni oggetto è trattato come uno di famiglia, dove anche un ramoscello spoglio prende vita e diventa qualcosa di bello e fantasioso, dove ogni cosa ha un motivo per esistere e decorare. I piatti bianchi e blu con la data sono solo uno degli oggetti, forse i più banali e comuni, che si possano incontrare passeggiando per le strade di Copenhagen.
Ecco, io all'improvviso mi sono trovata catapultata nel paradiso della spulciatrice del modenariato e felice come un topo nel formaggio, operosa come un'ape su un fiore ho cominciato svolazzare tra un negozio ed un museo, tra un grande magazzino e un rigattiere, tra una teleria e un argentiere. Svolazza qui, svolazza là con gli occhi ho comprato tutto, in realtà poco e niente. Perché il tavolo in puro stile nordico degli anni cinquanta non lo puoi trasportare come bagaglio in stiva sull'aereo, soprattutto con le ristrette politiche sul bagaglio di alcune compagnie aeree; la poltrona di pelle marrone dal design essenziale, pur essenziale non può essere spacciata come borsa a mano e nemmeno quella lampada speciale, col cappello di vetro opaco e la forma anni settanta, non può passare per un ombrello un po' fuori misura. Mi sono dovuta consolare con l'acquisto a prezzo stracciato di una magnifica tovaglia dai grandi fiori accattivanti, molto Swinging London, neri e verdi che poteva stare tranquillamente dentro la mia valigia. Più che altro ho allenato le gambe e gli occhi. Ho sbirciato tante vetrine per ore e ore, senza pausa, per chilometri e chilometri, senza posare le ossa nemmeno per un istante, fino allo sfiancamento fisico nonché mentale.  Nel tardo pomeriggio del primo giorno ero già un ammasso di gambe dolenti e muscoli duri. Non paga delle mie avventura pomeridiane, alla sera, dopo una deliziosa cena, in un posto dal fascino nordico, affollato ed allegro, ho deciso di concedermi quattro passi per tornare in albergo. Quattro passi assaporando le vetrine rutilanti di luci e sfavillanti di oggetti favolosi. Ho proseguito a zig zag come un ubriaco guardando ora una vetrina da un lato della strada, ora una dall'altro. Attraversavo la strada per ammirare un cassettone dalle linee essenziali appoggiato ad una parete bianca, riattraversavo per dare un'occhiata ad una lampada un po' barocca posta davanti da un quadro astratto; passavo sulle strisce pedonali per analizzare la superficie levigata di un tavolo ovale perfetto nella sua essenzialità; mi sembrava di essere su un otto volante di opportunità perdute mentre guardavo una poltrona senza braccioli uguale a quella della mia infanzia. Sospiravo e avevo languori per oggetti che non avrei mai potuto avere per mancanza di spazio e impossibilità di trasporto. E poi è apparsa lei, una vetrina d'angolo dall'altro lato della strada, la serranda abbassata, ma con la la luce vibrante. Dentro era tutto bianco e c'erano tanti oggetti, oggetti bellissimi, pronti da guardare, pronti da sospirare. Immobile, come folgorata ho aspettato che le poche macchine e le bici sfreccianti mi lasciassero il passo e di corsa ho attraversato la strada, attratta come una falena dalla luce calda. Come un'innamorata che incontra per la prima volta dopo molti mesi l'innamorato, vedevo solo oltre la vetrina, brillante, pulitissima, trasparente, e il suo interno era pieno di tesori come una caverna di un Ali Babà nordico. Mi sono avvicinata di corsa, le braccia quasi aperte ad accogliere l'abbraccio affettuoso di quegli oggetti che ammiccavano sornioni. E poi un tonfo, un ronzio, una specie di gong che suonava nelle orecchie, rimbalzava nel cervello, vibrava nel mio corpo, come se avessi ricevuto un bacio mozzafiato. Sono rimbalzata contro il vetro freddo come una pallina di gomma sul muro, ho ondeggiato come Pippo quando sbatte contro un palo, ho vibrato come Vil E. Coyote quando sbatte sul fondo del Canyon. Mi girava la testa, l'emozione è svanita per lasciare posto alla vertigine, al sangue in bocca, alla botta sonora che ho preso contro la vetrina, troppo pulita, troppo piena di belle cose, troppo trasparente e pulita, quella fetente. Non so cosa ci fosse dentro al negozio, i miei occhi pieni di lacrime mi hanno impedito di scoprirlo, e non lo saprò mai, perché il dolore lancinante mi ha impedito di girarmi e guardare all'interno. So però cosa c'era sulla mia bocca il giorno dopo, un gonfiore violaceo, che assomigliava in maniera inquietante ad un mezzo baffetto alla Hitler; ho netto il ricordo del sublime dolore alla spalla, al braccio e alla mano spalmati sul vetro freddo; porto ancora i segni sul naso di un incontro involontario con la superficie perfettamente liscia e trasparente, dura come solo può esserlo un vetro antiproiettile. Avverto ancora nelle orecchie il suono delle ossa che scricchiolano pericolosamente nell'impatto e sento ancora il suono lontano, come di campane tibetane, che ha risuonato nelle mie orecchie a lungo. E provo un odio profondo per le serrande che stanno dentro al negozio, lontane quaranta centimetri dall'immacolato vetro che dà sulla strada.