giovedì 30 maggio 2013

PANCAKES ROSSI CON FARINA DI QUINOA


Una colazione diversa dal solito. Quest'insolita versione di pancakes è buonissima e anche coloratissima. Tra l'altro è perfetta dal punto di vista nutrizionale vista la presenza delle farine di quinoa, proteica e senza glutine, ideale per i celiaci (sostituire la farina integrale e 00 con quella di Kamut nel caso di celiachia), e delle barbabietole, alimento sano e disintossicante.  Mi devo ricordare di indagare se Gabrielle Hamilton sceglierebbe di farli da Prune, chissà, intanto ricordano che questa settimana siamo ancora negli USA. 

Secco: 60 g di farina di quinoa – 60 g di farina integrale  – 120 farina 00 – tre cucchiai di zucchero di canna grezzo – un cucchiaio di lievito chimico – tre quarti di un cucchiaino di fleur de sel

Umido: 350 ml di latte intero – 80 g di yogurt – tre cucchiai di burro fuso tiepido – un uovo – tre barbabietole piccole cotte

Col mixer ridurre in purè finisimma le barbabietole. Prelevare 120 ml di purè. Setacciare la mescolanza secca e sbattere con la frusta quella umida. Unire a quest’ultima 120 ml di barbabietola e mescoalre bene fino ad ottenere una mescolanza omogenea. Unire alle farina, e incorporare delicatamente con la spatola. Preparare i pancakes, scaldando una padella oliata con uno scottex imbevuto di olio, versare circa 60 ml di impasto e cuocere da un lato finché non si formino delle bolle in superficie, girare e cuocere ancora un paio di minuti. Servire caldi con lo sciroppo d’acero tiepido. 

mercoledì 29 maggio 2013

FILETTI DI SALMONE ALLO SCIROPPO D'ACERO E SALSA DI SOIA


Questa ricetta non è di Prune, ma diciamo che potrebbe figurare tranquillamente nel menù del ristorante, magari con qualche modifica della fantastica chef. 

otto filetti di salmone con la pelle – un limone tagliato in quarti – quattro cucch di olio extra vergine d’oliva –  noce moscata – cannella in polvere – due spicchi d'aglio schiacciati nello spremiaglio - un  cucchiaino di sale – una macinata abbondante di pepe nero – 60 ml di salsa di soya – 125 ml di sciroppo d’acero

Pulire e asciugare il salmone, strofinare ognuni filetto con lo spicchio di limone e poi con due cucchiaini d’olio (per far aderire le spezie). Mescolare a parte tutte le spezie (la quantità dipende dal gusto personale, potete aggiungere o togliere)  e l'aglio, spolverarle abbondantemente sui filetti, conservare in frigo per un’ora. In una padella far scaldare due cucchiaini di olio e mettere il salmone dal lato della pelle, cuocere a fuoco alto per 4 minuti. Girare e cuocere per altri 4 minuti. In una padellina mescolare la salsa di soya con lo sciroppo d’acero e far cuocere su fuoco medio finché la salsa non veli il cucchiaio (7/10 min). Versare la salsa sui filetti di salmone e servire con riso bollito o alle verdure.

martedì 28 maggio 2013

NEW YORK STATE OF MIND - METTI UNA SERA A CENA

Dietro al Bancone di Prune
Chi segue il blog sa che ho un gruppo di amiche denominato "leGalline". Siamo un po' distratte, vagamente fulminate, allegre il giusto, molto ironiche e auto ironiche, e ci mancherebbe altro con i disastri che riusciamo a combinare. Io, tra l'altro, sono quella che vive pericolosamente perché cado spesso e altrettanto sovente gli oggetti mi vengono addosso provocandomi lividi, contusioni e feritine varie. Le "leGalline" sono ormai abituate a questo fenomeno paranormale di oggetti che si spostano verso di me e le ironie si sprecano. I nostri amici e compagni sono rassegnati alla convivenza con persone che vivono in un mondo loro, costantemente invaso da una nebbia inebriante che permette di sorridere agli errori decisamente numerosi. Tutto questo per introdurvi alla storia di oggi. Quella che segue è cio che in ambito "leGalline" definiremmo una Gallinata o storia tipicamente aviaria, cioè solo nostra. Insomma, un piccolo disastro.
Tutto inizia quando "laGallina Zafferana", cioè io, atterra a New York.

Ci sono dei ristoranti dove la Zafferana ama andare a mangiare, ce ne sono altri dove le piace guardare il panorama, fauna, flora o cemento che sia, altri ancora dove va perché si sente a casa. A New York è difficile affezionarsi ad un posto, ci sono i ristoranti alla moda e i ristoranti storici. Ci sono poi quelli neonati che magari fra una ventina d'anni entreranno negli annali come classici, oppure posti favolosi che durano lo spazio di una fumata di sigaretta. La Zafferana non è razzista, la piace frequentarli tutti, senza esclusione.  Li ama, li detesta, li rifrequenta, li stronca, ci manda gli amici con la stesso entusiasmo. E' sensibile e le viene il magone quando un ristorante a cui era affezionata chiude, le sembra che un pezzo di lei sparisca per non tornare più, ne fa quasi una malattia. Poi però, bisogna dirlo, è un po' fedifraga, non appena ne conosce uno nuovo trasforma il magone in innamoramento ed è pronta a sposare il luogo con tutti i crismi, finché morte non li separi. Allora inizia una storia d'amore di cui non è gelosa e vuole condividere col mondo. La Zafferana è generosa.
A New York è sempre difficile scegliere dove mangiare, i giorni sono pochi, i posti infiniti e quando si è innamorati, si sa, si vuole trovare il tempo di incontrare gli amati beni. La Zafferana ha spesso problemi a conciliare amori e tempo.
Questa volta la Zafferana aveva le idee chiarissime: almeno una sera doveva andare a cena da Prune, non si poteva sgarrare. Prune è un posto minuscolo con un arredamento semplice e delizioso, un po' bistrot parigino, un po' bar newyorchese, con uno chef donna in cucina e un indirizzo speciale, in bilico tra trasgressione e tradizione. Uno di quei posti dove è essenziale prenotare, perché tutti ci vogliono andare e perché si mangia bene. La fama è dovuta al passaparola, alla gente che ci ha mangiato ed è soddisfatta, ma anche al recentissimo libro autobiografico della chef proprietaria. Se prima era difficile trovare un tavolo, adesso, dopo il libro, è complicatissimo. Non accettano prenotazioni online, solo al telefono e la Zafferana non è così esagerata da telefonare dall'Italia per prenotare. Ha aspettato di essere a New York. In realtà l'addetto alle prenotazioni dei ristoranti non è lei in persona. Quando viaggia la Zafferana prenota i voli, sceglie e riserva gli appartamenti o gli hotel, e con maniacale precisione cerca i posti dove mangiare alla sera. Il resto, le cose da visitare, le prenotazioni dei ristoranti e i posti dove mangiare a mezzogiorno sono compito del Gallo Zafferano, il suo compagno di vita e viaggi. Questa è un'equa spartizione dei compiti, tanto per non far sembrare il loro ménage una dittatura dalle sfumature rosa.
Bene, fin qui tutto chiaro e limpido no? Infatti, la Zafferana ha cominciato a chiedere al Gallo  di prenotare il ristorante il giorno dell'arrivo, quando ha acquisito il nuovo numero di telefono cellulare americano. Il Gallo ha gentilmente annuito e ha continuato a razzolare per la città senza minimamente pensare alla prenotazione. Passa un giorno, passano due, passano tre, il Gallo razzola placido, la Zafferana starnazza nervosetta, ma senza risultato. Finalmente il venerdì sera il Gallo si decide e chiede il numero di telefono alla Zafferana. La Zafferana prende la guida dei ristoranti e cerca il nome di Prune, diligente e precisa detta il numero. Il Gallo prenota con calma olimpica scandisce il nome per la prenotazione, specifica l'ora e riattacca. Sorride, abbiamo un tavolo. In effetti la Zafferana è particolarmente ben impressionata dal potere del Gallo, "davvereo ci sei riuscito?". Il Gallo è stato in grado di trovare posto nel ristorante ventiquattro ore prima, in un luogo dove le code si sprecano, e di sabato sera per di più. Che uomo di abilità sublime, che Gallo di mondo, che cavaliere senza macchia. Evviva.
Sabato sera al tramonto la Zafferana in ghingheri un po' casual e il Gallo in elegante pantalone adatto al sabato sera si sono avventurati nel East Village, ex quartiere in bilico tra borderline e moda. Si sono presentati un po' in anticipo sull'orario di di prenotazione. Quella che segue è la conversazione originale, ovviamente tradotta.
"Buonasera" sorriso aperto, ma un po' duro, tipico delle signore che accolgono gli ospiti nei ristoranti.
"Buonasera, abbiamo una prenotazione. Gallina Zafferana"
"Che nome?"
"Zafferana, Gallina"
"Per che ora?"sguardo perplesso all'elenco delle prenotazioni
"19.30"
"Mmmmm, no non mi pare"
"Come non le pare? Ho telefonato. Ieri" il Gallo è deciso.
"Ieri" stupore negli occhi, che poi si stringono in una fessura un filo sospettosa "A che ora?"
"Tardo pomeriggio. Guardi qua" il Gallo porge il cellulare con grazia e numero di telefono chiamato in bella vista. Un professionista dell'"entro nel tuo locale che tu lo voglia o no".
Signora dell'accoglienza che guarda il numero. Scuote la testa.
"Non è il nostro numero"
E compone sulla tastiera il numero di telefono che il Gallo ha composto il giorno prima. Rispondono dall'altra parte, lei si informa. Il ristorante si chiama Primola, si trova Uptwon, dall'altra parte della città, fa cucina italiana. La Signora ha il buon gusto di non chiedere se c'è una prenotazione a nome Zafferana. Riattacca. Si gira e in tono sorridente ma deciso dice "Non ho posto", mostrando il ristorante pieno di gente che gozzoviglia, mangia, beve e, la Zafferana lo sente, si fa beffe di loro. Il Gallo guarda la Zafferana e i suoi occhi dicono "Hai fatto una gallinata" avvolti da un misto di severa tenerezza e vago rimprovero.
Miss Accoglienza vede le loro facce. Le facce di due bambini a cui hanno portato via la tavoletta di cioccolata mentre la mangiavano, le caramelle mentre le succhiavano e un giocattolo mentre ci giocavano. E' una virago, un po' spigolosa nonostante la taglia morbida, ma si intenerisce vistosamente. Le fanno un po' pena quei due che compogono numeri sbagliati e prenotano ristoranti dove non hanno intenzione di andare.
"Beh, fra un paio d'ore ho posto al bancone" concede.
La Zafferana adora il bancone, adora la signora dell'accoglienza, l'abbraccerebbe.
Primola e Prune  nell'elenco dei ristoranti sono a due righe di distanza. Però, forse è stato meglio cenare da Prune, non foss'altro per l'adorabile serata passata nella postazione al bancone, che fa tanto habitué che sa prenotare il ristorante.
(2- continua)


venerdì 24 maggio 2013

NEW YORK PIZZA MY WAY

La Slice (fetta) di pizza che si trova a New York meriterebbe lunghe disquisizioni, mi fermo ad un'affermazione azzardata: è buonissima. La adoro. Non è la nostra pizza, lo so perfettamente e mai mi permetterei di paragonarla a quella fragrante e fumante che esce da un forno a legna. Sarebbe un sacrilegio. Ma ho una vera passione per la New York Pizza. L'ho detto. C'è chi ha la passione per gli Hot Dog, per gli Hamburger, per il Pastrami Sandwich, per il kebab, che si trovano nei baracchini e nei Diner della città. Per me è la Slice of Pizza la mia fantasia gustatoria. Arrivo a New York ed è la prima cosa che faccio, divorare una Slice. Con sopra il peperoncino triturato (red pepper flakes). E' anche uno dei modi più economici di pranzare in una città per altro piuttosto cara sul fronte cibo.

300 g di pasta di pane - un chilo di pomodori da sugo - una mozzarella fiordilatte - tre cucchiai di  parmigiano grattugiato - uno spicchio d'aglio origano - peperoncino tritato - olio sale



Spellare i pomodori facendoli scottare trenta secondi in acqua bollente. Togliere i semi. Stendere la pasta e metterla sulla teglia del forno. Far scaldare un cucchiaio di olio, far appassire l'aglio schiacciato e non appena è biondo toglierlo. Mettere i pomodori e far cuocere finché non hanno una consistenza molto densa, quasi simile al concentrato di pomodoro ma un po' più liquido, salare e pepare. Far raffreddare. Far scolare la mozzarella tagliata a dadini per una mezz'ora.
Stendere la pasta sulla teglia del forno. Unire il pomodoro, coprendo tutta la superficie, spolverare con due cucchiai di parmigiano. Infornare nel forno precedentemente scaldato a 250 gradi. Dopo cinque minuti unire la mozzarella, il resto del parmigiano e l'origano. Quando la mozzarella è sciolta e la pasta bella croccante e abbronzata togliere dal forno, dare un giro d'olio. Servire con il peperoncino se piace.


giovedì 23 maggio 2013

BICCHIERINO CON ZUCCHINA, ASPARAGO E GAMBERO CHE SALTA

Per cominciare un piatto che non è affatto newyorkese, ma che potrebbe esserlo perché è chic, modaiolo, ma buonissimo. 

150 g di ricotta (mucca o pecora) - otto gamberi freschissimi - una zucchina - otto asparagi - uno spicchio d'aglio - un cucchiaio di parmigiano - mezzo cucchiaio di basilico tritato - mezzo cucchiaio di erba cipollina tritata - olio sale pepe

Scottare i gamberi in acqua bollente, un minuto non di più, devono restare croccanti. Togliere il carapace lasciando intatta la coda e tenendo da parte la testa. Lavorare la ricotta, salare pepare, unire l'erba cipollina e il basilico. Cuocere gli asparagi al  dente. Tenere solo le punte e il resto tagliarlo. Tagliare finissima la zucchina, farla saltare in una padella con pochissimo olio e lo spicchio d'aglio, a metà cottura unire i gambi degli asparagi. Salare pepare. Mettere sul fondo di un bicchierino le verdure, coprire con la ricotta, e mettere il gambero sulla bordo infilando la testa nella ricotta, come se il gambero saltasse dentro al  bicchiere,  e mettere la punta di asparago accanto alla testa.
per otto bicchierini

martedì 21 maggio 2013

NEW YORK STATE OF MIND


Lo Skyline di Downtown da Williamsburg, a destra la Freedom Tower in costruzione
Ogni volta che arrivo a New York è come se fosse la prima volta. Già l'atterraggio al JFK Airport mi emoziona, la terraferma, l'oceano, che diventa fiume, le case, il verde che si trasforma in spiaggia e l'orizzonte che sfuma nella città mi elettrizzano. Solo la coda al controllo passaporti mi riporta sulla terra e mi conferma che sono arrivata in quella che è la porta dell'America. La routine del viaggiatore di oggi prova che la porta dell'America è socchiusa, c'è il catenaccio e lo tolgono solo quando sono sicuri che sei innocuo. Il poliziotto delle dogane, ti scruta e non sorride, come la maggior parte dei poliziotti in quel ruolo, in tutto il mondo. Li scelgono con una paresi del sorriso, controllano che i muscoli addetti a stendere le labbra siano atrofizzati, lo fanno apposta, solo se sei truce abbastanza puoi stare al controllo passaporti di un aeroporto. Guardano il passaporto poi te, poi di nuovo il passaporto, poi lo passano nel lettore ottico. Segue la trafila delle impronte digitali, mano destra, mano sinistra, pollice destro, pollice sinistro, foto alla tua faccia stravolta dal volo intercontinentale, allora provi un sorriso sbilenco, tanto per non risultare veramente orrenda nel ricordo che lasci allo Stato americano. Poi, finalmente la porta si apre e sali sul taxi. Alla guida di solito trovi un personaggio improbabile che parla un inglese ancor più strano, spinge la macchina sull’expressway trafficata, tra le case basse del quartiere Jamaica,  quartiere che in una parola definisce un'identità. Case povere e case meno povere sfrecciano dai finestrini dell’auto, davanti al passeggero uno schermo televisivo spesso informa sulle ultime notizie. Il resto del percorso dipende dall'indirizzo che hai dato al taxista. Dal taxi guardo assorta il panorama, mi godo l'istante e aspetto. Aspetto il momento in cui tra uno spiraglio del sedile davanti, vedo la punta di un grattacielo, allora mi infilo le cuffie e faccio partire la prima canzone della playlist che ho creato apposta. Da sempre, come la prima volta, le note di “New York, New York” mi esplodono nelle orecchie. Piano, piano Manhattan si avvicina e lo skyline della città si fa più netto e preciso, anche se a volte è leggermente appannato dall’afa estiva. Nel primo autunno l'aria è tersa, trasparente, il cielo di un azzurro impossibile, come in primavera. D'inverno non so, non ci sono mai stata. I capannoni industriali si succedevano per lasciare posto alle case e al verde di Flushing Meadows, poi si attraversa uno dei ponti sull’East River, il mio preferito è quello di Williamsburg, perché la prospettiva mi piace, si vede tutta la punta estrema del Downtown, dove una volta c'erano le torri gemelle e oggi la Freedom Tower. Mi piace molto anche arrivare sulla Fifth Avenue, costeggiare Central Park e guardare il taxi che si avventura nel traffico. Non posso farci niente, ogni volta è un'emozione attraversare i grandi canyon formati dai grattacieli che sembrano schiacciarmi nella loro imponente sfacciataggine. Il cielo a volte grigio, a volte turchese, che scompare e appare secondo l’altezza del palazzo mi commuove. Di solito, se vai verso Downtown, ad un certo punto appare la familiare silhouette dell’Empire State Building e hai la certezza di essere veramente a New York. Allora mi piace avere nelle orecchie Lou Reed con “Walk on the Wild side”, un pezzo adatto al momento perché un tempo quel grattacielo segnalava l'inizio della parte selvaggia della città. Un sottile limite fra chi può e chi non può, sotto l'Empire ci sono Little Italy, Tribeca, Meatpacking, Chinatwon, Lower East Side. Si scende lungo la spina dorsale della città verso Greenwich Village e la punta estrema dell'isola, passando dal centro pulsante, dove la gente corre, cammina in vestiti eleganti o negli stracci dei barboni senza tetto. New York è così, un saliscendi di emozioni, un avanti e indietro nella scala sociale, nella ricchezza e nella povertà, camminare in città è come volare su un otto volante. Alla fine, passando i quartieri eleganti, lasciando alle spalle le zone alla moda, un tempo si arrivava nell'inferno. Che fosse Lower East Side o Meatpacking, erano posti pazzeschi con case diroccate, spazzatura per strada, spacciatori all’angolo, creativi, attori, tossici, studenti, barboni alcolizzati e nullafacenti decoravano i marciapiedi. Oggi, oggi, tutto è diverso, in quello che era il tempio del Punk, il CBGB sulla Bowery, la via dei barboni, c'è il negozio dello stilista John Varvatos. Tutto splende, lucidato e laccato. Esistono ancora alcuni bar dove bevi fianco a fianco con un signore di cui non puoi immaginare la provenienza e la professione, ma il cui aspetto è lontano dall'essere rassicurante. Sono rimasti pochi i locali dove bere in pace e fare i fatti tuoi senza sentirti scrutato da un redattore di moda che ti disapprova. Il più delle volte trovi un attore o una celebrità che bevono un cocktail di moda vestiti in stile trasandato ricercato. L'ultima volta ho trovato uno di questi baretti, in una via laterale della Bowery, e mi sono seduta col mio compagno a bere una birra. Della compagnia che abbiamo incontrato vi racconterò fra un paio di settimane. Stay tuned, state in ascolto, ne vale la pena. 
(1 - continua) 

sabato 18 maggio 2013

IL BACCALA' - PATANISCAS DI BACALHAU (FRITTELLE)

Il sabato sarebbe il giorno del dessert o del dolce, ma in questo caso occupandoci di baccalà non era possibile trovare una ricetta che stesse bene o che fosse a base di baccalà. A dire il vero ne ho trovata una, si tratta di baccalà con il cioccolato, non l'ho mai assaggiata e non so se ho voglia di abbinare due dei miei ingredienti in un piatto quantomeno insolito. Prima o poi proverò e vedrete comparire i risultati.  Questo è un classico petisco (stuzzichino) portoghese, molto, ma molto classico. Si trova in tutti i ristoranti e i bar dove si beve una birra. 

un filetto di baccalà dissalato - una cipolla piccola - un cucchiaio di olio - 250 g di farina - un uovo - latte - limone - prezzemolo tritato - sale - pepe - olio per friggere

Pulire il fileltto di baccalà dalla pelle e dalle spine. Sfaldarlo con una forchetta, o tagliarlo a pezzettini piuttosto piccoli, e farlo marinare coperto di latte e limone per circa due ore. Preparare una  pastella cipolla tagliata fine, il prezzemolo, sale pepe, l'uovo, la farina e acqua quanto basta a renderla scorrevole. Passare il baccalà nella pastella e friggerlo in olio caldo fino a doratura. Asciugare su carta assorbente, spolverare di sale fino e servire. Nella tradizione si accompagnano con insalata di fagioli all'occhio.
per quattro persone 

venerdì 17 maggio 2013

IL BACCALA' - LE GRAND AIOLI (BOLLITO DI PESCE MAIONESE ALL'AGLIO)

Un grande classico della cucina provenzale, anzi il piatto principe. A Marsiglia e nelle zone provenzali si serve in mille piccole varianti, ma il fulcro, il centro del piatto è senz'altro il baccalà. Bollito e servito con le verdure. Piatto sublime nella sua semplicità. Lo adoro. La ricetta di oggi è quella codificata, con una sola variante: le vongole. E no, e anche le uova di quaglia e le verdure mini. Perché? Perché si presentano così bene sul piatto, ma così bene da renderlo più appetitoso. Coloro i quali detestano l'aglio, astenersi. Nel blog trovate un'altra versione della salsa all'aglio, l'aioli, cercatela e scegliete quella che preferite. L'ideale sarebbe non salare affatto le verdure d'accompagnamento ma se volete potete farlo.

un filetto di baccalà bello spesso, già dissalato - olio d'oliva - mezzo chilo di calamaretti (quando in stagione) - un chilo di lumachine di mare (quelle piccole e grigie) - un paio di pugni di vongole veraci (già spurgate) - mezzo chilo di fagiolini - trenta patate novelle - una dozzina di zucchine mini - una dozzina di carote mini -

per aromatizzare due bouquet garni composti da: una foglia di porro (parte verde) - gambi di prezzemolo - qualche rametto di timo - una foglia d'alloro - una barba di finocchio o finocchietto selvatico - un rametto di dragoncello - un scorzetta di limone (solo parte gialla)

per l'aioli: tre spicchi d'aglio - un tuorlo d'uovo - un tuorlo d'uovo sodo - olio d'oliva e olio di arachidi

Mettere tutte le erbe per i bouquet garni dentro le foglia di porro, chiuderle e fissarle con uno spago da cucina. Far spurgare le lumachine di mare per un'ora in acqua salata. Inseguito farle cuocere per venti minuti in acqua bollente salata al quale avrete aggiunto il bouquet garni. Cuocere il baccalà partendo dall'acqua fredda, alla quale avrete unito l'altro bouquet garni, per 10 minuti a fuoco bassissimo, raggiunto questo tempo spegnere il fuoco e far intiepidire il baccalà dentro all'acqua. Preparare le verdure, lavare e spazzolare le patate che lascerete con la buccia, cuocerle al vapore per 15 minuti, unendo le carote e i fagiolini. Cinque minuti prima del termine di cottura aggiungere le zucchine. Salare leggermente le verdure a fine cottura. Cuocere le uova quattro minuti dall'inizio del bollore. Sgusciarle. Saltare il calamari in una padella con un filo d'olio d'oliva, non appena sono opachi togliere dal fuoco. Salare con molta parsimonia. Far aprire le vongole in una grande padella.
per l'aioli: spellare gli spicchi d'aglio. tagliarli nel senso della lunghezza e togliere la parte verde. Schiacciarli con lo spremiaglio in una terrina o mortaio, unire il tuorlo d'uovo, un poco di sale e pepe. Aggiungere il tuorlo sodo schiacciato con la forchetta. Unire a filo l'olio di arachidi lavorando con la frusta come per una maionese, verso la fine cambiare l'olio passare a
quello di oliva.
Servire il baccalà attorniato dalle verdure, dai frutti di mare e dalle uova con la salsa aioli.
per sei persone

P.S. Fate dissalare il baccalà al pescivendolo, è molto più pratico. Altrimenti, se preferite farlo da soli, procedete così: lavare bene il baccalà per togliere il grosso del sale, tagliarlo a tocchi e metterlo in un recipiente pieno di acqua fredda e lasciarlo dissalare per 24 almeno cambiando spessissimo l'acqua. 




giovedì 16 maggio 2013

IL BACCALA' - BACALHAU A' BRAZ

Un grande classico della cucina portoghese, contiene tutti gli ingredienti fondamentali e più usati nelle ricette lusitane: le patate, il baccalà, le uova e il coriandolo (qui sostituito col prezzemolo per adattarlo al gusto italiano). Una via di mezzo tra una frittata e ricche uova strapazzate. 

tre filetti di baccalà ben dissalati - un chilo di patate - due cipolle - cinque uova - olive nere tipo Gaeta - un mazzetto di prezzemolo tritato - olio evo - sale pepe

Pulire le patate, sbucciarle e tagliarle a fiammifero sottilissimo lcon l'apposito utensile. Dopo averle tenute in acqua per un quarto d'ora, asciugarle bene e friggerle in olio caldo finché non sono dorate e croccanti. Scolarle bene. Bollire il baccalà in acqua per cinque minuti, farlo raffreddare e togliere pelle e spine in modo accurato. Sfilacciarlo. Far soffriggere le cipolle tagliate a fettine non troppo sottili e unire il baccalà, mescolare bene e aggiungere le patate. Sbattere le uova in un piatto fondo unirle al baccalà fuori dal fuoco, ma nella pentola calda. Amalgamare bene. Salare pepare. Rimettere sul fuoco per qualche istante in modo che si rapprenda un pochino. Spolverare con il prezzemolo tritato e aggiungere le olive. Servire subito
per quattro persone 

mercoledì 15 maggio 2013

IL BACCALA' - SPIEDINI CON CREMA ALLA PANNA ACIDA

Ho un libro di cucina portoghese bellissimo si chiama "Cozinha Tradicional Portuguesa", ci sono tutte le ricette più classiche della terra del Porto. Il Portogallo è un paese essenzialmente contadino e lo si capisce dalla spiegazione di una delle ricette presentate nel libro, inizia così: "Prendete una gallina nell'aia... " e prosegue ovviamente dicendo di tirare il collo alla bestiola, farla frollare leggermente e solo allora passarla in pentola. Ho trovato fantastica ed esilarante questa ricetta. La mia di oggi non sarà affatto così, anzi magari sì. Questa settimana il tema sarà il baccalà, quello che i portoghesi chiamano "o fiel amigo" (l'amico fedele) e che sanno preparare in 365 maniere diverse. Almeno, così loro dicono. 

Prendete un merluzzo, copritelo con una quantità di sale pari al suo peso, mettetelo ad essiccare.... scherzavo. Ecco la ricetta. 

un paio di filetti di baccalà belli spessi e perfettamente dissalati - due porri grandi o tre piccoli - un ciuffo di coriandolo fresco o aneto - 120 g di panna acida - olio evo sale pepe e pepe rosa in grani

Pulire i porri, tagliarli a metà per il verso della lunghezza, e sbollentare le foglie. Tagliare il baccalà a tocchetti regolari, circa due cm per lato, avvolgerli nelle foglie di porro e spennellare con l'olio. Preparare gli spiedini e farli cuocere in forno a 220 gradi per circa mezz'ora. Girare ogni dieci minuti. Mescolare la panna acida con il coriandolo o l'aneto tritati, salare e pepare, unire il pepe rosa. Servire gli spiedini con la crema.
per quattro persone

martedì 14 maggio 2013

LOST IN TRANSLATION A PORTO


Alba sull'Oceano 

Era passata una settimana. Una settimana da quando l'aereo era atterrato a Porto. Fino al giorno prima ero immersa nell'afa tropicale di metà febbraio, tra uno scroscio di pioggia e un altro, in una San Paolo di cui avevo già saudade. Ero salita sull'aereo ancora appicicaticcia di sudore e col sapore dell'ultimo Pao de Queijo in bocca, come nella poesia di D'Annunzio volevo "che il sapor di acqua natia", in questo caso un pane, rimanesse nelle mie papille più a lungo possibile.  Erano anni che non mi succedeva di vivere nella cara vecchia Europa e all'alba dal giorno successivo, vagamente disfatta dal fuso orario, avevo brindato con una tazza di caffè. 
La casa era bella, grande e con una vista su un parco che digradava verso l'oceano. Gli alberi spogli di febbraio facevano cornice all'acqua blu. Sotto, il rumore della via che aveva un nome bellissimo, Rua do Campo Alegre. Quella mattina il sole illuminava la sala piena di casse da sballare, mobili disposti alla rinfusa e polvere, molta polvere. Alla confusione si erano aggiunti i ponteggi degli imbianchini arrivati il giorno prima con una pazza voglia di fermarsi a lungo, vista la velocità con la quale dipingevano. I pennelli e i rulli passavano lenti sulle pareti, con una lentezza pari a quella di un indiano stanco. E un indiano stanco è veramente stanco. Arrivavo da un paese, anzi da una città, dove tutto era veloce, ritmato, confusionario. Ero atterrata in una città dove, al contrario, vigeva un ritmo languido e sonnecchiante a cui non mi sono mai abituata. Quella mattina ero persa nei miei pensieri, nelle incombenze classiche di un trasloco: sballare i piatti, ordinare i libri, decidere dove mettere le cose. Le stanze invase dalle valigie, la disperazione di vedere le pareti ancora sporche, i simpatici imbianchini presi dalla frenesia della chiacchiera rallegravano quegli istanti.
Ad un certo punto avevo deciso di andare a vedere che cosa stavano combinando quelli che avevo soprannominato Michelangelo e Direttore, uno perché dipingeva solo soffitti e l'altro perché aveva la tendenza a guardare quello che faceva Michelangelo, dandogli consigli e guardandosi bene dall'operare.  Si erano presentati, a dir la verità, ma i loro nomi si erano persi nella cacofonia dei suoni gutturali che uscivano dalle loro labbra. Sì, perché tra il brasiliano, lingua, e il portoghese, lingua, c'è un oceano di mezzo e si sente. Quanto uno è melodioso, cantato, ritmato, veloce, l'altro è secco, basso, gutturale, sembra tedesco, se va bene. Sotto al ponteggio guardavo i miei artisti della parete e cercavo il modo di capire quello che Michelangelo tentava di dirmi.  Mi stava spiegando qualcosa, ma i suoni che emetteva erano toltamente estranei al mio cervello, come se non parlassi portoghese. Ovvio, parlavo e capivo il brasiliano. Lui faceva gesti e ripeteva all'infinito la parola "picheleiro" (pron. pisceleiro). Ero attonita, per un italiana la prima parte della parola era chiara. Poi, Direttore ha avuto un'illuminazione, è sceso dal ponteggio e mi ha portata in bagno. Il mio sguardo era sgomento, vorrai mica che ti guardi mentre fai pipì, maniaco! Invece, con un gesto mi ha mostrato il rubinetto del lavandino che perdeva  copiose gocce d'acqua, e finalmente ho intuito quello che volevano dirmi lui e il suo socio. Mi sa che dovevo chiamare quello che fino ad una settimana prima definivo "o encanador", idraulico. Per essere sicura ho sfogliato il dizionario e, trovata la parola giusta, l'ho mostrata al Gatto e la Volpe, dopo la parola italiana si leggeva la traduzione "hidraulico". Con il dito ho mostrata la parola e i due mi hanno guardata sorridendo, a uno mancava un premolare, e mi hanno risposto in coro "Em Lisboa. Aqui no Porto chamase de picheleiro", "A Lisbona, qui a Porto si chiama picheleiro". E andiamo bene. Se non capisco loro che li vedo in faccia, come faccio a telefonare a un idraulico? Ho pensato sconsolata sedendomi sul divano. I due hanno ripreso a dipingere con la stessa alacrità e passione di poco prima. Io sono rimasta sul divano a pensare come avrei potuto cavarmela con la lingua. In effetti è stata dura la prima settimana, poi una volta abituata me la sono cavata alla grande e adesso riesco persino a fare l'imitazione di un portoghese e un brasiliano che rispondono al telefono.
Mentre ero lì seduta che consultavo il dizionario e scrivevo le frasi da dire all'idraulico, una terribile botta per la mia autostima, nel silenzio della casa all'improvviso ho sentito un miagolio. Un gatto? Ho fatto il  giro delle stanze alla ricerca della bestiola. Non c'era traccia di alcun felino. Ancora due, tre miagolii. Ero sul punto di optare per una gita in una clinica psichiatrica quando ho scoperto che  Direttore sottolineava tratti di conversazione coi versi del micio in calore. Più che di una clinica psichiatrica avevo bisogno di una boccata d'aria per allontanarmi dal momento surreale. 
Sole, brezza tiepida come solo a Porto a febbraio può accadere. Sono andata verso il mare e mi sono seduta in un bar sulla spiaggia, un libro in mano. Aria di primavera anche se era appena passato San Valentino, ho seguito con lo sguardo uno stormo di gabbiani che scendevano in picchiata sulle onde. Ecco, ho pensato, così trascorrerò il resto della giornata con buona pace di Michelangelo e Direttore. 

sabato 11 maggio 2013

TORTA DEI PESCATORI (CON POMODORO E ACCIUGHE)


Questa è una ricetta che proviene dal lato dalmata della famiglia. Ricetta di cui abbiamo trovato l'appunto solo pochi anni fa, nascosto in fondo ad un cassetto mentre si smantellava la casa di mia nonna. Era scritta con la grafia semplice e contadina della bisnonna, peccato che il foglietto sia di nuovo sparito chissà dove. Resta la ricetta che prende che la bisnonna aveva intitolato Torta dei Pescatori, per la presenza abbondante di acciughe, suppongo. Chissà se è il suo vero nome. 

700 gr di farina – un cucchiaino di zucchero – un cucchiaino di sale – un cucchiaino di pepe – 250 ml di acqua – 30 g di lievito di birra

ripieno: 1,2 kg di pomodori – tre cipolle – uno spicchio d’aglio – una foglia di salvia – sei cucchiai di olio di oliva – un piccolo barattolo di acciughe sott’olio – un cucchiaino di origano

Preparare la pasta: mettere tutti gli ingredienti in un mixer e mescolare finché non diventa omogenea. Metterla in una terrina coprire e far lievitare per mezz’ora. 
Spellare i pomodori, privarli dei semi e tagliarli grossolanamente. Tritare la cipolla, schiacciare l’aglio. Mettere l’olio in una padella, aggiungere la cipolla aggiungere l’aglio, i pomodori e la salvia. Salare e pepare. Cuocere si fuoco dolce fino a che la salsa non abbia la giusta consistenza (come un purè). Pulire le acciughe sotto l’acqua corrente, asciugarle e metterle dentro il pomodoro. Stendere metà della pasta su un piano infarinato, diametro 40 cm. Metterla in una teglia unta e versare la salsa. Stendere la senconda parte di pasta allo stesso diametro e sovrapporla all’altra sigillando i bordi. Con i rebbi di una forchetta bucherellare, spennellare con un po’ di olio di oliva e mettere in forno per 20 min a 200°. Servire caldo o tiepido con un’insalata e qualche oliva. 

giovedì 9 maggio 2013

PASTA FINTO VONGOLE

Un trucco, già proprio. Una pasta che ho imparato a fare in un posto dove non arrivava il pesce, in un posto perso sulle montagne dell'Himalaya, a 1500 metri con montagne da 3000 che mi sovrastavano. Una lunga stagione del monsone e poco da fare se non cucinare e inventare quello che noi chiamavamo i "looks like", traduzione assomiglia a: una pasta con le vongole, ad un Irish Coffee, una torta al limone. Sfornavamo looks like a più non posso. Ve ne passo uno. 

360 g di spaghetti - una scatola di tonno all'olio o al naturale (io preferisco il secondo, ma di ottima qualità) - un limone - uno spicchio d'aglio - un mazzetto piccolo di prezzemolo - tre cucchiai di olio - sale pepe - peperoncino (facoltativo)
The Himalayan Hills, come chiamano gli indiani la parte di montagne prima che diventi la catena dalle alte cime

Portare ad ebollizione l'acqua per gli spaghetti. In una grande ciotola sbriciolare il tonno, grattugiare la scorza di metà limone, unire l'aglio tagliato a fettina sottili (per chi non amasse mangiarlo strofinare la ciotola con mezzo spicchio d'aglio prima di sbirciolare il tonno), l'olio, poco sale, il succo del limone e il prezzemolo tritato fine. Mescolare bene, unire il peperoncino se lo usate. Lascir riposare un quarto d'ora. Tenere da parte un mestolo di acqua di cottura e scolare la pasta, aggiungerla al tonno e mescolare bene. Nel caso il "sugo" fosse un poco troppo denso unire un po' di acqua di cottura. Servire subito.
per quattro persone

mercoledì 8 maggio 2013

INSALATA DI POLPO, PISTACCHI E BOTTARGA

Non è mia intenzione rivelare le ricette della Playa, sono loro e non le tocco. Questa settimana sarà la settimana del pesce, magari non proprio cucinato in maniera tradizionale. Come ad esempio oggi. 


un polpo – un piccolo pugnetto di uvetta bionda – 15 gr di pistacchi – 15 gr di pinoli – cuori di lattuga – bottarga di muggine – aromi ( prezzemolo, porro, pepe in grani, alloro,  gambo sedano) – vino bianco 

per il condimento: due cucchiai di succo di limone - 60 ml di olio - un cucchiaio di aceto bianco aromatico - mezzo cucchiaino di miele - sale 

In una padellina tostare a secco i pinoli. Ammollare l'uvetta in acqua calda. Lavare in acqua ghiacciata il polpo, marinarlo per mezz'ora nel vino bianco e metterlo in una casseruola, coprire con acqua fredda, unire gli aromi e portare ad ebollizione. Far cuocere per 18 minuti. Far scolare dal liquido e lasciarlo raffreddare. Togliere la pelle. Sbattere con la frusta, una forchetta o nel mixer il succo di limone, il miele e un pizzico di sale, aggiungere poi  olio e aceto ed emulsionare. Tagliare il polpo condirlo mescolando bene, unire i pinoli, i pistacchi, l’uvetta . Guarnire con foglie di lattuga taglia a pezzi con le mani e bottarga tagliata a lamelle. 

martedì 7 maggio 2013

DI SPIAGGE, CIBO E ACCIUGHE PARLANTI

Sono stata in vacanza. In una città in continuo fermento, in continua evoluzione. Ogni volta che torno mi lascia a bocca aperta, per come riesce a cambiare restando sé stessa. Sono stata in vacanza a New York. Ho passeggiato, corso a Central Park, mangiato in ristoranti sopraffini (che senz'altro citerò la prossima volta che scriverò dei "Luoghi del cuore"), respirato novità, coi piedi gonfi e la testa fra le nuvole. Oggi però non vi racconterò della Big Apple, di cui vi parlerò la settimana prossima. Oggi faccio una cosa che ho fatto solo un'altra volta in questo blog (il racconto "Cibo per Menti Aperte" dedicato al Noma ), parlerò di uno dei miei luoghi del cuore. Di solito non recensisco ristoranti, ci mangio e basta, e neanche quella che seguirà è una recensione più che altro è un atto d'affetto.
Sono cresciuta ad Ospedaletti, ho passato lì tutte le estati della mia vita perché la mia famiglia è originaria di lì. In questo blog ho raccontato del giardino fatato della casa dei miei nonni, di mia nonna che mi portava in giro per il paese, quella stessa nonna che mi spalmava unguenti misteriosi e miracolosi sulla schiena scottata dal sole, ho raccontato di polpi pescati in maniere originali, di bambini e gatti che si godono l'alba o il pomeriggio in un giardino ombreggiato, di ragazzi che giocano a spaventarsi in una villa disabitata e diroccata (trovate tutti i racconti nel blog). Insomma posso provare con carte alla mano di amare quella che considero la mia casa, da buona giramondo che non ha mai avuto una vera casa. Quella, ecco quella è casa mia. Il mare di Ospedaletti non è un mare facile, scogli, pietre, pietrisco, pietre grandi, un mare aspro che per gli amanti della sabbia è una sfida, una lotta. Per chiunque un bagno diventa una conquista, certo ci sono i pontili, certo ci sono le scalette per immergersi nel mare e, ci mancherebbe altro, in alcuni posti si può entrare in mare con una certa agilità. Il Golfo di Ospedaletti, permettete, è un vero spettacolo, chiuso fra due capi, incastonato nel verde della montagna, l'azzurro del mare è impareggibile, la vista arrivando dall'autostrada mozzafiato. Ammetto, ogni volta che arrivo mi commuovo. Apro il finestrino e sento l'odore del mare, delle ginestre, dei fiori. Casa. Come casa sono le spiagge, come casa è la passeggiata dove tutti abbiamo fatto avanti e indietro coi nonni che spingevano la carrozzina, dove tutti abbiamo aspettato almeno una volta un amico o un fidanzato. Casa. Casa come quel pezzo di via Roma che diventa vicolo e scende in discesa verso la Chiesa di San Giovanni. Casa come la chiesa di Sant'Erasmo, il profumo del mare e della Sardenara. Casa. Casa, come il caffè bevuto al bar e la verdura e la carne comprate dallo stesso fruttivendolo e dallo stesso macellaio, anno dopo anno, e di anni ne sono passati tanti. Casa. Casa come il ristorante, ormai diventato ristorante di famiglia. Ecco di questo voglio parlare.
Per me è un luogo del cuore. L'ho più volte citato nel blog durante l'estate quando pubblico suggerimenti di viaggio. D'estate in pratica ci vivo, mi sbatto su un lettino in riva all'acqua con un libro, qualche rivista e ozio durante tutte le vacanze. Ozio finché non è ora di mangiare perché a quel punto mi alzo, percorro un breve tratto di spiaggia e vado a mangiare. Ovviamente al ristorante. E' un ristorante di spiaggia, cioè del mio stabilimento balneare di elezione, aperto solo a mezzogiorno. Si mangia pesce, i non amanti del genere (pazzi che non siete altro!) possono assaggiare la pasta condita con un pesto sopraffino e che d'estate va in produzione a gettito continuo per essere venduto bell'e pronto da portare a casa. Non so dirvi se trovate una bistecca, non ho mai desiderato mangiare altro che il loro pesce. Ecco, sottolineo la parola "loro" prima di pesce. Si perché il pesce che trovate nel piatto poco prima nuotava in quel Golfo magnifico che raccontavo prima. La cucina lo mette nel piatto in modo tradizionale e sfizioso, con quel giusto tocco di nuovo. Per esempio ieri una sublime confettura di cipolle accompagnava il Brandacujun (Stocafisso mantecato con patate e olio, piatto più tradizionale non si può), che è così buono che ne mangeresti quantità industriali. Ancora ieri, c'era il Fritto di Acciughe, grosse come il mignolo della mano di un bambino, talmente fresche che secondo me avevano fatto conversazione con Paola o Liliana, le cuoche, prima di essere infarinate e passate nell'olio caldo. Il cartoccio con le Orate emanava effluvi mediterranei di pomodorini, olive e zucchine. Il Baccalà, con la carne delicata e profumata come se fosse un pesce nobilissimo, stava sotto ad una crosticina croccante, appetitosa e delicata. Sono di parte, perché mangiare qui per me è come farlo nel salotto di casa, però i dolci, eh sì i dolci, che a me non piacciono tanto, sono sublimi e ogni volta mi faccio tentare. Non resto mai delusa. I piatti sono fatti con le materie prime di stagione, che seguono ritmi del territorio, i pesci, se non sono pescati da qualcuno della famiglia, arrivano da pescatori amici e di fiducia. Per fare finta di scrivere una recensione come si deve devo parlare anche del servizio. Gentile, attento e simpatico, mai invadente. Insomma un posto che a me piace perché si mangia meglio che a casa, ma pare di essere a casa.

LA PLAYA Ospedaletti (IM)