martedì 19 febbraio 2013

PANIC IN NEW YORK CITY

Foto di Nicola Bortolussi (www.nicolabortolussi.it)
Adoro New York, quasi quanto amo Chicago. Ho sempre amato le città piene di vita e grattacieli, e New York rappresenta entrambe le cose. Mi sono anche simpatici i newyorchesi, benché come i milanesi e i parigini, siano in pochi a sopportarli, li trovo spigolosi, ma alla fine sono meglio di quanto non vogliano apparire. Certo, per molti New York rappresenta l'America, e non solo la porta di accesso ad un mondo diverso. Invece io trovo che New York rappresenti se stessa e basta, è un'isola multiculturale diversa in una nazione ancora più sfaccettata e variegata. New York è solo la parte sofisticata di un mondo da scoprire con grandi contraddizioni e magnifiche certezze.
Una volta passeggiavo con un'amica, era l'ultimo giorno di una frenetica, e come poteva essere altrimenti a New York, settimana. Eravamo sole lei e io, quattro passi a Soho, in libertà assoluta. I nostri compagni a bighellonare da qualche parte, molto pobabilmente a farsi una birra o a guardare le ragazze di passaggio da un ristorante o un caffè. Giravamo un po' a vuoto, non avevamo niente da compare ed era una giornata bellissima di settembre. Siamo entrate ed uscite da gallerie d'arte, negozi di abbigliamento alternativo e tradizionale, da cartolerie chic, dove un foglio di carta costa come un appartamento di media caratura in periferia, e da deliziosi negozi dove si vendono cose bellissime e completamente inutili. Era quasi arrivata l'ora di mangiare prima di andare all'aeroporto e ci siamo dirette al luogo dell'appuntamento coi nostri compagni. Abbiamo aspettato alcuni minuti e nessuno si è fatto vivo. Né il mio compagno, né il suo apparivano all'orizzonte. Aspettavamo in silenzio, le chiacchiere esaurite nelle nostre passeggiate. Siamo tutti adulti, vaccinati e grandi viaggiatori. Un minuto di ritardo in una città non è niente di cui preoccuparsi. Eppure io ero inquieta. L'assenza mi pareva troppo lunga, un filo d'ansia aveva preso a salire dallo stomaco verso la gola, ma tacevo la mia angoscia. Avevo bisogno di conferme evidentemente, nessuno di noi aveva un telefono cellulare, dato che l'urlo di battaglia  per quella settimana era stata "Niente collegamenti col mondo". Cosa non facile nella città che si sente l'ombelico del mondo. Quindi, la mia amica e io eravamo ferme ad un angolo di strada nel quartiere di Soho, sole. Io scrutavo inquieta l'orizzonte, la mia amica mi pareva calma, vagamente annoiata. Ad un certo punto ho detto: "Io vado a cercarli" e a passo di carica ho preso le mie gambette, le ho fatte sfrecciare lungo le vie chicchettose del quartiere, camminavo veloce come una saetta e la mia amica dietro che mormorava qualcosa che io non sentivo. Entravo e uscivo dai negozi, dai bar, dai ristoranti. Perlustravo ogni angolo dei locali, come un cane da fiuto a cui hanno fatto annusare un indumento di un rapito. Annusavo l'aria per capire se di lì era passato qualcuno che conoscevo, ovviamente non trovavo nessuno. Correvo sempre più preoccupata da un angolo all'altro, da un marciapiede all'altro, da un locale all'altro. La mia amica sempre più perplessa, sempre più preoccupata. Per me, non per i nostri compagni. Però lei non era nella mia testa, non poteva capire cosa stesse succedendo nei meccanismi del mio cervello.
Siamo tutti e quattro adulti, vaccinati e grandi viaggiatori. Rotti a qualsiasi esperienza, abituati a cogliere qualsiasi sfumatura o cambiamento d'atmosfera. Personalmente ho girato per i quartieri malfamati di alcune delle città meno sicure del mondo, tra cui Sao Paulo e New Delhi, non ho avuto paura un solo minuto. Ho vissuto in città dove veniva stuprata una donna ogni dieci minuti, e non ho avuto paura un solo istante, ma quel giorno non so cosa mi fosse preso. Mi aggiravo presa da una frenesia angosciata, la testa pulsante di fotografie orrende. Immaginavo i nostri compagni caricati su un furgone dalle porte scorrevoli e senza finestrini. Quei furgoni che si vedono in certi film o nelle serie tipo "Criminal Minds", quelli usati dai serial killer per rapire le loro vittime. Non ragionavo, quelle che io pensavo potessero essere vittime di un serial killer erano due uomini giovani in ottima salute, uno dei queli era grosso come un armadio a quattro ante. Difficile da prelevare in un sol gesto, figurarsi con un compagno. Immaginavo che li avessero chiusi in un sotterraneo legati mani e piedi, in mezzo ad una pozza d'acqua piena di topi. La fantasia galoppava, il nodo di ansia si stringeva sempre più intorno alla mia gola, e avevo perso la testa. Ad un certo punto sono entrata in un bellissimo bar, di quelli col banconee di legno lungo e i separé con le sedie rivestite di pelle, lì era morbida pelle verde, quei bar frequentati dopo il lavoro da poliziotti e avvocati nei film che parlano di giustizia giusta. Il bar era inondato di luce chiara, pieno di gente e un tavolo era occupato da un signore grosso come un armadio a quattro ante e da un altro più piccolo, ma discretamente massiccio. Bevevano una birra e ridevano. Non ci ho più visto, mi sono avventata contro quei due e ho urlato: "Ecco, io muoio di angoscia, vi cerco per tutto il quartiere e voi, voi siete qui a scolarvi una birra e a ridere". Mi hanno guardata come se fossi pazza, molto probabilmente lo ero, dietro di me la mia amica li guardava, immagino di uno sguardo rassegnato. Con molta calma, come si usa fare coi sequestratori di ostaggi nelle banche, hanno detto "Guarda che l'appuntamento è fra un quarto d'ora". Io sono rimasta ferma a guardarli, un minuto buono. Poi ho dato un'occhiata all'orologio e trionfante ho detto"Eh, no, l'appuntamento era per un'ora fa". La mia amica ha guardato il quadrante che mostravo fiera e ha detto "Peccato che tu sia avanti di un'ora, ci ho anche provato a dirtelo". Ecco, a quel punto ho fatto una cosa che nessuno si sarebbe aspettato. Ho fatto come fanno i gatti quando non riescono a saltare dove hanno stabilito e cadono rovinosamente al suolo. Si guardano intorno indifferenti, si danno una leccatina alla zampa e riprendono a camminare col massimo della tranquillità. Come se niente fosse successo. Ecco, io ho fatto così, mi sono seduta, ho preso un sorso dalla bicchiere di birra di uno di loro e ho chiesto "Bene, come si mangia da queste parti? Il panino al tonno è buono?". In tre mi hanno guardata, rassegnati ad avere una compagna e un'amica non completamente sana di mente.

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