mercoledì 4 dicembre 2013

UN DESIDERIO AVVERATO

Ecco la seconda parte del racconto, con il suo finale. La prima parte è stata pubblicata lo scorso mercoledì.


Le mani mi facevano male e in alcuni punti avevo dei piccoli tagli che però non sanguinavano. Camminavo piano verso la casa, un po’ perché avevo paura di quello che avrei trovato, un po’ per metterci più tempo così da scansare il lavoro. Dopo poche ore ero già giunto alla conclusione che preferivo studiare invece di piegare la schiena su un prato pieno di erbacce. Il vialetto verso la casa era coperto di ghiaia da cui spuntavano erbacce, forse sarebbe toccato a me estirparle, avevo pensato sconsolato. La villa  era imponente, ma non tetra come avevo sempre immaginato, anzi era di un bel color rosa come quello dei ciclamini, le antiche finestre erano contornate da un complicato disegno bianco. Il portone  era grandissimo e in quel momento era aperto, sembrava una grande bocca e le scale sembravano una lunga lingua che volesse inghiottirmi. Ci passai davanti accelerando il passo, era l’unica via che desse accesso al retro, ne uscì un alito d’aria fredda, mi venne la pelle d’oca. Ecco, stava tornando nella mia mente l'immagine dei Lorchitruci maghi misteriosi e infernali. Quando girai l’angolo provai un’inattesa sensazione di sollievo, avevo trattenuto il fiato senza accorgermene. Quella casa doveva essere enorme perché, pur costeggiando il lato più corto, ci misi un po’ ad arrivare sul retro.
Dietro, le finestre non avevano tutti i ghirigori della facciata principale era tutto più semplice e lineare. Il giardino era più selvaggio e meno curato, vedevo molti arbusti spinosi e tanti cespugli che si intrecciavano. Qualcosa vicino alla selva che mi ero sempre immaginato. Il prato era punteggiato da grandi pietre grigie, come quelle che ci sono in montagna.
Stavo per raggiungere la porta della cucina quando dietro di me sentii una presenza. Mi fermai di colpo, col cuore in gola. Anche ciò che avevo alle spalle si fermò, io avevo il respiro affannato ma da dietro non sentivo venire nessun suono. Tanto che pensai di essermi sbagliato. Mossi un passo. Niente. Andai avanti piano e di nuovo sentii come se l’aria si comprimesse sulla mia schiena. Non trovavo il coraggio per girarmi, la porta della cucina non era lontana se fossi corso velocissimo forse mi sarei salvato da quello che sentivo dietro. Scartai questa soluzione. Presi coraggio, respirai a fondo e mi girai di scatto. A pochi centimetri da me stava il ragazzino cogli occhi gialli, mi fissava col suo sguardo accigliato. Io scappai verso la cucina. Il cuore si era fermato di battere, per poi riprendere a ritmo forsennato.
 Quando entrai in cucina la cuoca mi guardò sorridendo, non si accorse del mio spavento o per lo meno non lo dette a vedere. La cucina era bianca e luminosa, il tavolo con il piano di marmo era enorme e dominava la stanza. La cuoca si muoveva leggera davanti ai fornelli, era una bella signora alta dai capelli scuri, le dissi chi ero e le chiesi un po’ d’acqua perché avevo molta sete. La mia voce era stranamente ferma, nonostante dentro di me il cuore avesse ripreso a correre all'impazzata. Quella casa mi inquietava. Lei mi diede una limonata freschissima e deliziosa, mi sedetti al tavolo per berla e le chiesi chi fosse il ragazzino dagli occhi gialli.
- La signora lo ha trovato in un angolo della legnaia una sera dell’anno scorso, dopo quella grande nevicata. Era morto di freddo e fame. Non solo era ferito e la signora si è presa cura di lui.  – mi disse
E io le chiesi che cosa ci facesse lì, se non aveva una famiglia da cui tornare.
- Nessuno sa chi sia e per di più lui non parla. Non una sola parola, solo piccoli suoni. Volevano chiuderlo in un orfanotrofio, ma la signora ha chiesto il permesso alle autorità e adesso vive qui con noi. Chissà magari prima o poi troveremo la sua famiglia. E' un ragazzino strano, molto strano. –
Finii la mia limonata e la cuoca me ne diede una bottiglia con due bicchieri di plastica da portare a mio padre. Un volta uscito in giardino vidi il ragazzino dagli occhi gialli che mi fissava in silenzio, stava seduto su un sasso e si stava passando la mano fra i capelli, dietro l’orecchio. Gli feci un cenno, come per salutarlo, ma lui rimase immobile fissandomi coi suoi occhi profondi ed intensi.
Tornai al mio posto pronto a strappare ancora un po’ di erbacce, non ero contento ma dovevo farlo. Posai la bottiglia di limonata all’ombra di un albero e tornai a pulire l’aiuola. Facevo un mucchietto consistente di erba che poi mettevo dentro ad un sacco nero. Stavo appunto per fare questo quando vidi un bigliettino piegato in due alla base del sacco, era di carta a quadretti un po’ stropicciata come se qualcuno lo avesse tenuto in mano a lungo. Lo presi. 
Quando riuscii a decifrarlo, la grafia era quasi incomprensibile, rimasi a bocca aperta.
“Perché hai smesso di cercarmi? 
Tommy”
In un primo momento restai tra il perplesso e lo spaventato. Non capivo, Tommy era il mio gatto ed era sparito da un anno, non l'avevo più cercato, però un gatto non può scrivere biglietti inquietanti. Guardai di nuovo il biglietto e poi alzai lo sguardo. Il bambino dagli occhi gialli era in piedi accanto a me, mi fissava con uno sguardo colmo di rimprovero. Mio padre continuava a lavorare e non si era accorto di nulla. Il bambino inclinò la testa da una parte, come faceva Tommy quando mi studiava per capire le mie intenzioni. Allora capii, mi tornò in mente ciò che mi aveva raccontato la cuoca, la notte di neve, la tormenta, la legnaia, il bambino senza famiglia apparso all'improvviso. Allungai la mano per prendere la sua, lui si ritrasse, scostante e lo vidi scappare verso il cancello principale, lo rincorsi, e mentre gli correvo dietro lui diventava sempre più piccolo e veloce e si trasformava nel mio gatto nero, col pelo lucido, gli occhio tra il verde e il giallo. Corsi a perdifiato, ma non riuscii a raggiungerlo. Quando arrivai sulla strada era sparito, come se fosse stato inghiottito dalla polvere e dall'asfalto. 
Tornai molte volte a cercarlo in quella casa, ma la cuoca mi disse che era scomparso senza lasciare traccia. Come era accaduto in quella notte piena di neve.  
(2 - fine) 

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