sabato 9 giugno 2012

CIBO PER MENTI APERTE

Prelibatezze sui fornelli di un ristorante bord de route a Rampur, India 
Ho mangiato di tutto, ho mangiato ovunque. Sono naturalemente curiosa, quindi è stato facile ingurgitare cose nuove, forse un po' di diffidenza mi ha aiutato a non ingoiare improbabili manicaretti esotici. C'è un limite a tutto. Gli assaggi sono cominciati che ero una bambina appena svezzata e i miei genitori si sono trasferiti in Medio Oriente. Da quelle parti ho iniziato ad affinare le mie papille gustative e sono andata oltre al passatino di zucchine e alla bistecchina al vapore, piano piano la mia bocca ha cominciato a capire che fuori da lì c'era un tutto un mondo. In quella porzione della mia infanzia trascorsa nei paesi arabi la mia merenda preferita consisteva in Cahek u Zahatar (mi perdonino i madrelingua araba, ma non posso fare di meglio con la loro magnifica e complicata lingua che ormai ho dimenticato). Cahek, pane con il sesamo a forma di ciambellina, Zahatar, polvere mista di erbe, spezie e sesamo.  Tutti i giorni sotto a casa nostra passava il venditore, la sua voce risuonava sui muri delle case, rimbalzava di piano in piano e arrivava su verso l'alto, dove vivevamo noi,  e allora noi scendevamo per acquistare la leccornia. Il venditore teneva  il pane in una teca di vetro trasparente attaccata al collo, nella stessa teca c'era una ciotolina con lo Zahatar, che mi veniva consegnato racchiuso dentro ad un pacchettino di carta da giornale. Una moneta cambiava di mano e il Cahik mi veniva consegnato con un sorriso condito di una serie di  "Habibi" (tesoro) da parte della mia amatissima Maleke, l'anziana signora che lavorava a casa nostra e che mio fratello ed io veneravamo come una nonna. Io aprivo il cartoccio, spezzavo il pane, lo intingevo nella spezia e mi sentivo in paradiso. Questo è un vizio che mi trascino dietro ancora oggi, non appena arrivo a casa e ho del pane caldo lo "puccio" dentro allo Zahatar che compro in un negozio di specialità arabe.
La carta da giornale sembra ricorrente nelle mie esperienza gastronomiche. Ricordo perfettamente la prima volta che ho assaggiato il Fish and Chips a Londra. Con una mia amica inglese siamo andate al banco della friggitoria nella periferia di Londra dove lei viveva, ho questo ricordo di odore d'olio, un po' stantio a dir la verità, pesce e benzina, non so perché l'odore di benzina abbia accompagnato la prima esperienza di cibo inglese; forse il fornello era a benzina, chissà. La mia amica aveva passato giorni a decantare la bontà di quello che avrei scoperto essere semplice pesce fritto e patatine. Ne abbiamo ordinato una porzione e il venditore, dopo averlo spruzzato di aceto, ha avvoltolato il pesce con le patatine nel giornale. Io ho guardato il giornale, poi la mia amica, lei ha ricambiato l'occhiata e con un sorriso sornione ha accettato i dubbi di un'italiana sulla presenza del foglio di carta di giornale. Perché diciamolo, chi non ha mai pensato che quel foglio di giornale fosse stato smanacciato da chiunque, fosse volato per la strada, e che come minimo l'inchiostro nero e pieno di piombo fosse tossico. Non fate finta di niente, please, che tanto lo so, anche voi lo avete pensato mille volte. Lei con la flemma tipica dei britannici ha detto, ovviamente in lingua originale,  "Il fish and chips non viene servito senza giornale, perché col giornale è più buono", una piccola frase gentile per dire "non essere provinciale e prova, la prossima volta te lo fai servire in un piatto, se proprio ti fa schifo". Merluzzo fritto e patatine, un piatto banale nobilitato dalla carta di giornale. Sarà per questo motivo che sono diventata giornalista? Perché il giorno dopo dentro al mio articolo sudatissimo ci si avvolgesse del cibo?
Ho assaggiato di tutto, ma devo dire che non ho osato mettere in bocca alcuni dolci indiani che si vendevano alla fiera di Rampur, su per le montagne dell'Himalaya dove vivevamo non proprio felici. Sul banchetto dove bolliva un olio dall'odore sospetto c'erano dei nastri di qualcosa di non ben definito, ma dal colore ancora più sospetto, una variante tra l'arancione fosforenscente e il rosso fanalino di coda illuminato nella notte. Rutilanti e lucide di zucchero erano delle cose strane di cui i valligiani sembravano andare ghiotti, io non ho mai osato nemmeno darci una leccatina per paura che la mia bocca di tingesse inesorabilmente, ed eternamente, di rosso o che la lingua mi cadesse folgorata da qualche ingrediente misterioso. Le bocche dei valligiani erano già rosse quasi per natura, visto che masticavano il Paan, che consta in foglie di Betel e altri intrugli che rendono la bocca e la saliva rosso pompeiano.
Ho provato il serpente, come racconto in "Striscia le cena in Cina" qui nel blog. Sempre in Cina mi sono avventurata in ristoranti dove non esisteva un menu tradotto in nessuna lingua compresibile e quindi ho il sospetto di aver mangiato animali, verdure, alieni e altro, di cui ignoro anche solo l'esistenza. Ancora in Cina ho provato dei sublimi spiedini di carne cotti su una griglia arrugginita in mezzo alla strada, il sapore era celestiale, la consistenza della carne paradisiaca, il costo ridicolo. Di nuovo, non conosco né la provenienza, né il nome dell'ingrediente principale degli spiedini e non mi interessa saperlo, nemmeno a posteriori. Negli stessi giorni tra le bancarelle di un mercato ho trovato e assaggiato nell'ordine: una crepe con cipollotto, magnifica, un riso saltato con verdure, sublime, fragole caramellate servite su uno stecco, troppo dolci, ma un fantastico lecca lecca tutto natura.
In Turchia ho assaggiato la miglior carne cruda con grano, cipolla e prezzemolo che da quelle parti si chiama, accidenti l''ho dimenticato come si chiama. Mi trovavo in una stradina lontana dalle zone turistiche, affollata di turchi allegri, il banchetto era accanto ad un ristorante, in felice convivenza. Un banchetto di legno basso con un omino vecchio, vecchio dietro, le cui mani volavano tra le foglie di insalata, la carne e il bussolotto pieno di monete, spesso non in quest'ordine. In Brasile ho mangiato con i piedi nella sabbia e praticamente a casa di un pescatore, come chi segue il blog ben sa (Cena per due), ho bevuto i migliori sucos di frutta, frullati senza latte, di Rio de Janeiro nel baretto all'angolo tra Rua Prudente de Morais e Avenida Garcia de Avila, chissà se esiste ancora; lungo le strette viuzze che portano al Pelourinho di Salvador ho banchettato con Churrasco di strada e Acarajé cotti dentro pentoloni ribollenti da monumentali bahiane vestite di bianco; a Itaparica ho mangiato pesciolini fritti direttamente sulla spiaggia, questi però non hanno lasciato un buon ricordo, ho passato giorni a trangugiare pastiglie per rimediare al disastro. In Venezuela, quando il fine settimana mi sdraiavo sulla spiaggia di uno dei famosi Cayos, tra mangrovie e sabbie bianche, ho divorato Ceviche trasporatato in grandi borse termiche di polistirolo. In quei momenti non mi sono chiesta da dove provenisse il pesce, come fosse stato conservato, se chi lo aveva tagliato avesse usato il coltello pulito, se la borsa termica beneficiasse di una disinfettata ogni tanto. Non mi sono posta nessuna di queste domande, ho mangiato e basta.
La strada è stata la mia grande fonte di ispirazione per molte ricette che presento nel blog e che cucino nella vita quotidiana, ma ho anche un debole per i ristoranti di gran lusso e allora posso dire di aver mangiato da Joel Robuchon, uno dei guru della cucina internazionale, in un ristorante ipermoderno dove abbondavano graniti neri e acciaio; sono stata a San Paolo alla tavola di Alex Atala, il mago della cucina brasiliana considerato tra i migliori chef al mondo e ho assaggiato le sue magie esotiche; mi sono seduta e ho degustato un intero menu da Alinea a Chicago, più un pezzo perché chi mi accompagnava non si sentiva bene, lì mi sono stati serviti pezzetti di manzo di Kobe cotto alla griglia accompagnato da una brocca da cui usciva essenza di rosmarino; ho potuto assaggiare, cogli occhi e con la bocca, un dessert a base di cachi posato su un cuscino dal quale ogni volta che affondavi il cucchiaino nella crema uscivano effluvi di spezie orientali. Per giorni dopo l'abbuffata ho sorriso, pensando al cibo e alle brocche fumanti. Ho cenato con gli ingredienti essenziali e i piatti sublimi di Davide Oldani, ho assaggiato piatti pensati da Ferran Adrià, ma non sono mai riuscita ad andare a El Bullì, il suo ristorante, prima che chiudesse. Insomma, ho vissuto tutto l'alto e il basso della cucina,  le tradizioni rivisitate e non, gli esperimenti, a volte poco riusciti, e sono passata dalle bancarelle di quattro assi inchiodati lungo le strade alle tovaglie di lino inamidate delle grandi tavole,  ma non ero pronta per quello che mi si è prospettato la sera del primo giorno di primavera in una capitale nordica, ma questo è un racconto che vi accompagnerà la prossima settimana.
(1 - continua)

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