Il mare della mia infanzia |
La prima volta che l’ho vista
era seduta su un morbido cuscino blu, i capelli biondi stavano piantati ritti
sulla testa come paglia estiva e gli occhi blu cobalto scintillavano di
piacere. In una mano aveva da bere, nell’altra stringeva un oggetto che non avrebbe
mollato per i successivi tre anni. A pensarci bene quell’oggetto non l’ha mai
abbandonata, ha assunto forme diverse ma è sempre stato presente tra le sue
dita sottili. Un libro, si trattava di un libro con le pagine attaccate dall'umidità, incollate e strappate e per quel motivo era finito nelle nostre mani. Seduta sul cuscino sorrideva, come ha sempre sorriso nel corso della
sua vita. Pura luce. Io, beh io, ero quella di sempre: i miei occhi scuri
risaltavano sulla pelle olivastra, i miei quattro spaghi neri facevano capolino
da un cappellino bianco. Seduta su un alto cuscino blu ero pura notte. Allungavo la mano verso la sua, quella
che teneva stretto il biberon pieno di latte. Già perché la prima volta che ho
visto Lea avevamo circa sei mesi, settimana più settimana meno. Lei scuoteva il biberon e io tentavo di afferrarlo, quella volta ci sono riuscita. Di solito mi passava il ciuccio e, a pensarci bene, le prime cose
che ci siamo scambiate sono state le nostre salive. A tredici anni
ci saremmo scambiate le sigarette, a sedici la prima canna, a diciotto la
bottiglia di birra. Oggi, oggi bicchieri di vino bianco ghiacciato durante i nostri aperitivi. In quel momento, però, solo morigeratissimo latte. D’altronde a
quell’età non potevamo fare a meno di sorridere e bere latte, era quello il nostro
lavoro. No, forse c’era altro. Dovevamo apparire carine per inorgoglire il
mondo che ruotava intorno a noi. A pensarci bene non è questione di età, apparire carine è
quello che le ragazze devono fare per tutta la vita. Il ciuccio era volato nella
mia bocca e me lo stavo gustando come se fosse una caramella squisita. Alternavo ciucciate di latte e di caucciù, mentre lei strappava meticolosamente le pagine muffite dal vecchio libro. Mia
nonna ci lasciava fare, chiacchierava con l'altra nonna senza nemmeno degnare
di uno sguardo il ciuccio espropriato e nemmeno il libro oramai coriandolo. Con mia somma soddisfazione godevo come una pazza di quell'occasione paradisiaca. A rompere
la magia del momento era arrivata mia madre, accortasi di quello che avevo in bocca si era
precipitata a togliermelo, nella voce una sfumatura neppure troppo vaga di
disapprovazione “Naviezafferano, no!”. Ovviamente non mi chiamo Naviezafferano, tutto attaccato, senza pausa, mia madre aveva usato il mio nome. Mia mamma, con precisione teutonica aveva sciacquato il ciuccio sotto l'acqua del rubinetto e lo aveva restituito alla legittima proprietaria. Io avevo cominciato a piangere. Adoravo
il ciuccio, ma era qualcosa di proibitissimo a casa mia. Una delle regole non
scritte che si dovevano rispettare, come non prendermi in braccio se avevi il
raffreddore o metterti una mascherina se solo avevi il sospetto di
un’alterazione bacillare. Temutissime epidemie e malattie sconosciute potevano volare dalla bocca di chiunque mi tenesse tra le braccia. Anche il ciuccio era temuto come veicolo ricco di pericolosissimi batteri mortalmente letali. Come se avesse capito, la mia amica da quel momento in poi mi
avrebbe passato il ciuccio in qualsiasi momento, ovviamente assicurandosi che
mia madre non fosse nei dintorni. Naturalmente, anche il biberon pieno di latte e biscotti Plasmon era un oggetto di cui diffidare. E anche il biberon finiva spesso nella mia bocca, la mia amica me lo passava quando mia madre era distratta e se lo riprendeva non appena girava la testa. Femmina astuta. Forse, se ho un dente storto lo devo a queste frequenti passeggiate estemporanee con un ciuccio non mio. Mia madre si è sempre chiesta
il perché avessi un dente leggermente disassato pur non avendo mai usato il
ciuccio.
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