martedì 12 marzo 2013

UNA MEZZA RIVOLUZIONE EQUATORIALE - SECONDA PARTE


Il mare di Curaçao
Il concerto dei Manà aveva dato inizio ad un periodo molto caldo. La rivoluzione era nell'aria, i viveri cominciavano a scarseggiare nei supermercati, no però, questo non è vero. I viveri, i generi di prima necessità come farina, zucchero, latte mancavano all'appello da un bel po' di tempo, era una cosa strana, mancava il necessario e il supermercato era rutilante di vini pregiati, cibo speciale, golosità inutili. Strano, strideva con l'idea che il potere fosse del popolo, quella inculcata dal Presidente. Il popolo aveva bisogno di latte e spesso, nel supermercato, non si trovava proprio il latte, quando lo trovavi ne facevi incetta, chiamavi le amiche "quanto te ne prendo?", anche se a te il latte non serviva. Era un principio, il latte è fondamentale e non si rinuncia a qualcosa di fondamentale. Quindi c'era solo la rivoluzione nell'aria, i generi di prima necessità già scarseggiavano da mesi.
Strano momento. Tutto doveva cominciare una domenica notte. Era stato annunciato, il passa parola aveva sfiorato le bocche dell'intera nazione, si era diffusa la notizia, dopo gli scontri di Caracas qualche giorno prima. Scontri tra l'altro neanche troppo cruenti, ma in effetti abbastanza rappresentativi di quello che poteva accadere. Nessuno era sicuro se sarebbe successo veramente. L'aria era carica d'attesa tesa e lineare, come tutti i momenti di stallo. Noi, insieme ad altri, avevamo passato l'intera giornata a casa di un amico, che viveva sulle alture di Valencia, una città collinosa e relativamente tranquilla a due ora da Caracas. Un appartamento dal cui terrazzo si godeva una vista mozzafiato sulla città, una città piena di verde punteggiato da funghi giganti, i grattacieli e i condomini venuti su veloci negli anni precedenti, una città nella quale la giungla riusciva ad avere l'ultima parola col cemento (nel blog "Incontro ravvicinato a Valencia" racconta cosa poteva succedere passeggiando da quelle parti). Ci sentivamo un po' privilegiati, isolati e tranquilli. Com'era naturale l'argomento preferito sin dall'aperitivo era stata la rivoluzione annunciata. Mentre bevevamo Mojito, sorseggiavamo vino bianco cileno e inghiottivamo Whisky con tanto, tanto ghiaccio, come usa in Venezuela, qualcuno aveva detto: "Ma come pensiamo di comportarci dovesse scoppiare il casino?", erano partite parole in libertà. Chi voleva scappare in barca verso Curaçao, magari pagando uno dei traghettatori che di solito portavano a spasso i turisti per i magnifici Cayos, le isole di sabbia bianchissima non lontane da Valencia. Curaçao in linea di mare è vicinissima al litorale venezuelano, ed essendo territorio Olandese all'epoca sembrava una buona via di fuga. Altri pensavano di accamparsi all'aeroporto, saltare sul primo aereo in partenza che avesse come destinazione il primo paese a caso. Altri parlavano di armarsi fino ai denti, controllare l'arsenale casalingo e trovare pistole, coltelli, sciabole, machete, forchette, forbici, qualsiasi cosa potesse essere utile per fare del male e, poi, chiudersi  in casa aspettando il nemico. Magari guatando la porta. Si discuteva di rivoluzione, vie di fuga, spari e bombe, come normalmente di si discute di vino, cibo, figli, amici, moda, politica, meteo con la leggerezza dovuta ai pranzi fra amici. Con nonchalance si parlava di ritirare quanti più soldi possibile dalle banche, si sproloquiava di viveri da accumulare, soprattutto scatolette, di farina da comprare, di cibo congelato per stivare il congelatore ed avere un po' di autonomia, giusto come si dice "la settimana prossima tutti a cena da me". Si facevano piani di fuga  verso la giungla colombiana, si però da quelle parti c'è la guerrilla, diceva qualcuno, rischi di finire dalla padella alla brace, magari ti rapiscono e resti prigioniero anni come la Bettancourt. Ecco si discuteva di queste cose come se fosse normale trovarsi in quella situazione, come se la rivoluzione fosse un pranzo di gala. Prima del dessert ci eravamo già organizzati il nostro piccolo esercito privato, fornito di degno arsenale, che si si sarebbe nascosto a casa di un amico che si trovava in un posto con alti muri e vigilanza armata; ci eravamo già auto traghettati, carichi di contanti, svariate volte tra Curaçao, Aruba e Bonnaire; eravamo volati con diversi aerei alla volta di Miami, San Paolo, Bogotà, Quito, Cuba, ah no Cuba no perché Fidel era il grande alleato di Chavez. Non erano partite telefonate agli amici e familiari che vivevano in una delle città sopraccitate giusto perché ci pareva brutto metterli in agitazione. Io pensavo a cosa potevo lasciarmi dietro senza rimpianti e cosa portami invece di fondamentale. Mi sarebbero manacate moltissimo le Arepas, sì, ecco, magari mi sarei portata dietro un chilo di Masa Harina giusto per non scordarmi il loro sapore. Certo, fossi sbarcata in Colombia non avrei avuto il problema, si mangiano anche da quelle parti, però lì c'era il problema dei rapimenti. Già. Verso sera tutti eravamo tornati a casa, per aspettare l'annunciato inizio della Rivoluzione. E puntuale, come solo le rivoluzioni annunciate sanno essere, era partita. Alle due di notte, perché una rivoluzione seria parte quando meno te l'aspetti, in un momento morto, soprattutto di notte, magari perché si spera di beccare l'esercito addormentato, chissà. Macchine che sfrecciavano lungo i viali, colpi di pistola, fucili tonanti, urla selvagge, qualche bomba moltov lanciata alla rinfusa, tutto il necessaire per una rivoluzione seria era stato dispiegato. Era iniziata così, semplice facile, indolore. Legittima conseguenza dei cazarolazos. Abbiamo guardato per un po' dalle finestre di casa nostra, situata al tredicesimo piano ed in posizione strategica. Non si vedeva niente, si sentiva solo il rumore. Dopo un po' ci siamo stufati. Se la rivoluzione non è un pranzo di gala, non è nemmeno un momento da perderci il sonno allora. Avremmo visto il giorno dopo quale sarebbe stato il nostro destino. Forse era l'atmosfera, forse un paese così mite come il Venezuela non ci lasciava speranze per una vera rivoluzione di sangue, non eravamo particolarmente impauriti. La mattina dopo ci eravamo aspettati di vedere un po' di carriarmati dell'esercito girare per la città, però niente. Devo dire, avevo sognato di vedere movimento di militari, fucili, fuoco. Dalle piazze si alzavano colonne di fumo, erano gli pneumatici che bruciavano accanto alle barricate preparate dagli studenti. Si sentivano voci, qualche colpo e qualche scoppio (senz'altro molotov), ma niente che facesse veramente paura. Io sarei voluta uscire, sono pur sempre una giornalista e stare sul pezzo, come si dice in gergo, è un dovere che mi è rimasto attaccato dai tempi della redazione. Purtroppo avevo la proibizione di mettere il naso fuori di casa, ma scalpitavo, mi sarebbe tanto piaciuto vedere da dove proveniva il fumo che saliva in basso sulla sinistra, proprio sotto alla collina. Verso le dieci del mattino mi ha chiamata la mia amica "Che fai?" e io a spiegare che dovevo stare a casa. "Già, ma non puoi uscire a piedi, vero?", in effetti non era stato specificato, siccome non possedevo una macchina era ovvio che la proibizione fosse quella di non uscire... a piedi. "Ti vengo a prendere con la macchina", due minuti ed era sotto casa mia, siamo partite verso la sua, di casa, quella col terrazzo vista mozzafiato, e dall'alto ci siamo messe ad osservare. Fumo, movimento, eccitazione. Ci sentivamo un po' Nerone che guarda bruciare Roma, anche se pareva che Valencia non bruciasse abbastanza da decretare il disastro.  Dopo un po' chiedo alla mia amica "Ci facciamo un giro?", senz'altro sì, senz'altro, credo non aspettasse altro. Siamo andate a vedere la Rivoluzione. Tutte contente. Come se andassimo in gita. Siamo rimaste deluse, eravamo armate di macchian fotografica, registratori, quadernetti per appunti, non si sa mai che si riesca ad intervistare un rivoluzionario e a mandare il pezzo in Italia, di primissima mano. La giornalista nemmeno tanto sopita dentro di noi sembrava un puledro sbrigliato. Niente, abbiamo trovato gli ultimi pneumatici che bruciavano, nemmeno una pallida imitazione di  studente in giro, qualche poliziotto, qualche militare, ma nulla, alle undici era già tutto finito. Alle undici e dieci eravamo sedute al solito bar, un'arepa Reina Pepiada in una mano, un caffé lungo nell'altra, nel dehors, a guardare il via vai della gente. Come se non ci fosse stata nessuna rivoluzione degna di nota. 
Il giorno dopo sono riprese le proteste, un po' di scontri con la polizia. Niente di terribile, niente di devastante.  
Alla domenica è arrivata l'ora del Referendum, gli osservatori delle Nazioni Unite pronti a controllare la regolarità del voto, le urne aperte, la gente in fila, il mondo a guardare. Durante tutto il giorno i seggi brulicavano di gente, avanti indietro, dentro fuori, noi eravamo al nostro solito pranzo della domenica con amici. Tutti avevano votato. Ovviamente per il NO alla Reforma. Non vogliamo cambiare la costituzione Presidente, ripeteva il mio amico venezuelano fino al midollo, già un po' alticcio alle due e un quarto del pomeriggio. Alla sera, eravamo lì a bere Tequila Reposado, Birra, Vino, Mojito, sgranocchiando di tutto, era dalla mattina che sgranocchiavamo, in frigo c'era una bottiglia di Spumante, cileno, ovviamente, pronta per ogni evenienza. Parlavamo di tutto e di niente, aspettavamo un filo annebbiati dall'alcool (eufemismo, in Venezuela non si è mai un filo annebbiati dopo il pranzo della domenica), per non parlare della botta di calore di quel giorno salita all'improvviso e che ci aveva devastanti. Due dicembre, caldo, sudore copioso, alcool, votazioni, ci girava la testa. Mentre venivano diffusi i primi risultati, il nostro amico è andato in cucina, ha preso la bottiglia è arrivato e l'ha stappata sorridendo. Abbiamo saputo, più un "si mormora" che una cosa certa, che nello stesso istante Chavez ha tirato un pugno contro uno dei mobili del suo ufficio. C'è stato un boato soddisfatto in tutta la nazione e abbiamo bevuto alla salute del Presidente. Rimasto con un palmo di naso. 

(2-fine)

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