lunedì 19 marzo 2012

SFUMATURE A BANGKOK

Grigio. Il colore che prevale nei miei ricordi di Bangkok è il grigio. Il cielo fitto di nubi temporalesche, la strade lucide di pioggia grigie di asfalto, alveari di periferia grigi di cemento, grattacieli del grigio tipico del vetro da costruzione, pietra grigia i ponticelli del palazzo reale, e poi la nebbiolina della mattina grigia e cotonosa. Grigio punteggiato di verde scuro a tratti, quando la natura riesce a bucare il cemento e finalmente ad esprimersi. Ogni tanto, in un tempio o in un angolo della città il colore irrompe in tutte le sue sfumature: lo zafferano dell'abito di un monaco che attraversa un ponte rosso con decorazioni dorate o l'oro di cupole, guglie e ornamenti, il giallo dell'abito corto di una bella thailandese, il marrone marezzato di una giacca maschile, e ancora il blu di un completo di cotone su una donna che cura un giardino nascosta sotto un cappello a pagoda, tanti puntini che schizzano colore sullo sfondo del cielo basso grigio-biancastro. La stagione sbagliata per vedere il cielo turchese l'avevamo proprio scelta noi, la pioggia era una costante delle nostre giornate nel paese degli uomini liberi (questo significa il nome Thailandia). Come tutte le piogge, anche quella thailandese omologa a se tutti i colori, rendendoli più puliti e trasparenti, ma meno espressivi. Eppure Bangkok non è una città grigia, affollata sì, molto affollata, con il traffico imbizzarrito certo, ma non grigia. Ancora oggi i protagonisti sono Tuc-tuc che sfrecciano, moto che rombano, auto che si muovono, pedoni che attraversano, animali che scappano, uccelli che planano, la città è in movimento continuo, cinetica e inarrestabile.
Come tutte le piogge tropicali del mondo anche quella di Bangkok lasciava dietro di sé una nebbiolina calda che velava tutto, ma esaltava gli odori. Gli odori sono un mondo a parte di questa città, protagonisti insieme al traffico della quotidianità thailandese. Dalla finestra del nostro albergo potevamo vedere un parchetto pieno di verde e un prato, una mattina ci eravamo svegliati e il parchetto non si vedeva più sommerso com'era dalla pioggia battente, un muro d'acqua potente e scrosciante, così simile ad una cascata da farci decidere di restare in camera, complice il jet lag e il sonno arretrato. Un'ora dopo dal prato si alzava una nebbia fitta aiutata dalla temperatura più vicina al bollore dell'acqua che al ghiaccio che tintinnava nel nostro bicchiere. Aveva smesso di piovere e come ovvio, due bravi viaggiatori non stanno coi piedi ancorati alla stanza, ma prendono e vanno a farsi un giro in città. Dopo aver sperimentato un ottimo piatto di Pad Thai in un banchetto con due seggiole di legno, un tavolino sgangherato e il cui pregio era di trovarsi sopra un ponticello pedonale, lontano dal marciapiede e non proprio lungo la strada, abbiamo deciso di dedicarci all'acquisto di sete thailandesi tanto per cambiare la nostra routine quotidiana. Forti di un indirizzo che avevo scovato chissà dove, ma che sapevo essere perfetto, siamo saliti su un taxi. Un taxi vero, non un moto taxi, che sarebbero venuti dopo, e nemmeno l'infernale scoppiettante tuc-tuc. Nessuno può convicermi a salire su un tuc-tuc, lo so, fa molto signorina di provincia non esaltarsi davanti a quelle Ape Car truccate da mezzo di trasporto per umani, rumorose e deliziosamente caratteristiche, ma non sopporto di aggrovigliarmi nel retro di un tuc-tuc o di un risciò, rischiando la vita per amore di viaggiare in modo diverso, non ci posso fare niente. Neanche gli esilaranti richiami dei guidatori sono riusciti a convicermi a chiedere uno strappo a pagamento "One hour ten bhat, very fast, very cheap" è quel fast che mi ha sempre preoccupata. Solo una volta ho trasgredito alla mia regola non scritta e sono salita su un risciò a pedali a Pechino perché costretta da un'amica che li adora, l'idea che un altro essere umano possa pedalare con me e la mia amica, non proprio due scriccioli, su gambe spesso mingherline, mi manda in crisi per giorni. Insomma, abbiamo preso un taxi a quattro ruote e senza aria condizionata, siamo di quelli duri, noi. Contrattata un'andata e ritorno siamo partiti a velocità mozzafiato verso l'agognato negozio di sete e tessuti raffinati. Quel giorno il traffico era stranamente scorrevole e abbiamo attraversato la città in un baleno. Arrivati a destinazione, un palazzetto con giardino e grande veranda, ci siamo immersi nell'acquisto di bellissimi tessuti d'arredamento; che poi sono diventati anche un paio di abiti eleganti per me. Non abbiamo badato a spese e il direttore del negozio sembrava non aver visto clienti migliori per mesi, ci ha offerto da bere, da mangiare, forse sarebbe stato felice di ospitarci su uno dei divani rivestito di seta favolosa, avessimo avuto il coraggio di chiederlo. Invece no, abbiamo deciso di lasciare il paradiso con l'aria condizionata a temperature polari, tanto che avevamo già sviluppato un inizio di congelamento degli arti, per tornare nella bolgia del traffico verso il nostro albergo dove la temperatura l'avremmo regolata noi. Il direttore non voleva lasciarci andare e noi invece ci ostinavamo a voler andare verso i nostro taxi che aspettava fuori dal cancello con l'autista sicuramente annoiato e che meditava vendette zig-zaganti. Il direttore ci tirava gentilmente per il gomito, non voleva che uscissimo, continuava a ripetere ossessivo "It's laining, it's laining" ci segnalava puntando il dito verso l'esterno e, contemporaneamente, indicando uno dei divani. Uè signore, abbiamo pensato all'unisono, siamo mica scemi noi, abbiamo già speso l'ira di Dio e anche se ci offri da dormire noi non compriamo più niente. Intanto lui continuava ad esprimersi in un inglese tanto improbabile da risultare incompresibile e noi, ostinati, continuavamo a dire taxi, taxi; lui laining laining (pronuncia per line). Una line è una coda in inglese e noi di code non ne vedevamo, forse in quel suo inglese fantasioso, voleva segnalarci che essendo arrivata l'ora di punta avremmo evitato le code standoce buoni buoni seduti sul suo divano. Ad un certo punto è sparito. D'accordo, un drink, in altro dolcetto, forse poteva essere una bella idea. Se avesse spento l'aria condizionata. Poi abbiamo capito. La folgorazione è arrivata in un istante, quando lui è arrivato brandendo un ombrello. Altro che coda, lui voleva dire "It's raining, sir", ma quello che gli usciva dalla bocca era "It's laining, sil", si sa che agli orientali non è molto simpatica la lettera erre e questa non è una sfumatura da poco. In quel preciso istante abbiamo intuito la gentilezza del nostro quasi anfitrione. Signori piove, e guardate come piove, una bella cascata come quella della mattina stava creando fiumi e ruscelli sul marciapiede, se fossimo andati all'auto senza  ombrello ci saremmo infradiciati completamente. Allora lui, con un grande ombrello ci ha scortati verso il taxi, noi sotto l'ombrello, lui fuori, non erano più di cinquanta metri di percorso sotto la pioggia. Noi siamo saliti sul taxi semi asciutti; lui, nel suo elegante completo di seta grigio chiaro, diventato tristemente grigio scuro, fradicio e grondante di pioggia, ci ha salutato con la mano. Finalmente e inutilmente protetto dall'ombrello.

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