lunedì 5 marzo 2012

WELCOME TO INDIA

Monsone sulle montagne 
L'aereo era atterrato a notte fonda, sotto di noi i puntini luminosi e le strisce di luce della città. Una metropoli gigante, in verità, dodici milioni di abitanti all'epoca. In cielo nessuna stella e niente luna, buio pesto. L'aereo della Lufthansa aveva toccato terra dolcemente nonostate fosse a pieno carico. Intorno alla pista illuminata, il buio assoluto. Le manovre di parcheggio avevano richiesto più tempo del solito. Ero ansiosa. Ansiosa di arrivare, curiosa di vedere, avevo fretta di scendere ed ero nelle file di fondo. Piano piano l'aereo si era attaccato al finger, al corridoio mobile, con altrettanta lentezza si era aperto il portellone frontale, sembrava quasi che la celebre efficienza teutonica avesse cominciato ad adattarsi al luogo ameno. Con un'estenuante lentezza era iniziato lo sbarco. Camminavo lungo il corridoio, asettico e moquettato, con piccoli passi, e mi pareva che l'aria viziata della pressurizzazione diventasse diversa ad ogni passo. Alla fine è arrivato il mio turno di passare dall'aereo all'aeroporto, mi sono fermata un istante tra il portellone e la piattaforma, uno schiaffo mi ha colpito in pieno volto, un solo attimo e tutto era cambiato. Una zaffata di aria talmente umida e calda da sembrare burro fuso mi era piombata addosso, mi aveva coperto la faccia e le mani, si era insinuata tra le mie narici, le aveva invase di un odore strano. Era la fine di settembre, il monsone si era appena ritirato, lasciando l'aria intrisa di umidità e quello che mi aveva appena colpito, avrei scoperto con gli anni, era semplicemente l'odore della pioggia monsonica, un misto di spezie, animali bagnati, cadaveri decomposti, spazzatura, fiori di frangipane, piante aromatiche, masala, smog. Ero atterrata a Nuova Delhi, semplicemente Delhi per chi ci ha vissuto per più di una settimana.
Entrata in aeroporto, il caos. Un caos vero, scientifico. Centinaia di esseri viventi, passeggeri, inservienti, poliziotti, addetti alle pulizie, sembravano formiche guerriere all'attacco nella zona controllo passaporti. Qualche cane antidroga o antibomba girava col suo compagno umano attorno ai passeggeri vomitati dai portelloni di mille compagnie aree atterrate nello stesso preciso istante. Mi girava la testa, per la stanchezza, l'odore degli esseri umani, per l'odore strano che impregnava l'aria. Sandalo, Pachouli e cannella, forse.  I doganieri magri e baffuti controllavano i passaporti con minuzia estenuante. La notte fonda stava diventando una pre alba. Lentamente, molto lentamente la coda si era dipanata ed esaurita. Finalmente entravamo in territorio indiano, via, velocissimi, come bradipi stanchi verso i nastri bagaglio. Una visione da girone dantesco. L'impatto è stato notevole, centinaia, migliaia di valigie stavano a terra davanti ai nastri fermi e vuoti, e omini piccoli piccoli, magri magri vestiti di abiti sorprendentemente striminziti e bianchi saltano da una valigia all'altra per restituirla al legittimo proprietario.
Al momento non mi era concesso di sapere ma tutta quella gente, tutto quel rumore, tutto quel caos non mi avrebbe più abbandonato per tutti gli anni di permanenza in India. Credo che gli indiani abbiano inventato la meditazione e lo yoga per stare un po' da soli, isolati dal mondo almeno per qualche istante della loro vita, non mi spiego altrimenti. Non sei mai solo in India, dovrebbe recitare lo slogan del paese, a volte ci sono dei vantaggi che io effettivamente non ho ancora colto. Ecco, passata attraverso le forche caudine dell'umanità accalcata all'aeroporto di Delhi alle quattro del mattino, davanti a me si erano aperte le porte automatiche verso il Subcontinete e i suoi misteri. Oltre le porte, davanti a me si era piazzato un muro di gente fitto fitto sopra il quale veleggiavano i cartelli degli alberghi e degli autisti addetti al recupero turisti e uomini d'affari. Il caldo fuori era ancora più terribile.
Delhi ci ha accolti con le sue braccia umide di pioggia e il suo alito caldo. ll taxi ha iniziato il suo viaggio verso la città. Nel nero liquido della notte si muovevano basse nuvole di condensa, mentre il taxi nero e giallo ansimava e tossiva tra sacchi poggiati sul lato della strada, e vacche sacre che passeggiano incuranti delle auto che sfrecciano alla velocità di un lampo. Traffico come se fosse  mezzogiorno e non le cinque del mattino. Il primo barlume di alba aveva cominciato a rompere il buio, era un'alba grigia e nuvolosa, e allora i sacchi posti lungo la strada si sono animate, hanno preso improvvisamente vita: bisogna sbrigarsi, essere i primi ad usare il ruscello per lavarsi, altrimenti dopo l'acqua diventa troppo sporca, il loro mormorio muto aveva rotto il silenzio nella mia testa. Siamo arriviati nella Guest House d'appoggio che era quasi giorno, giusto il tempo di dormire qualche ora per poi iniziare a scoprire la città prima di ripartire per la nostra nuova residenza. Ero, eravamo stremati dal viaggio, dal caldo, dalle sorprese notturne che ci ha riservato la città. La testa aveva appena toccato il cuscino quando una mano si era abbattuta pesante sulla porta: "Breakfast is ready, Sir". Breakfast? Ma che scherzi, ho sentito dire a mio marito. "Train. 7.30. Sir" e il neofita del paese della lentezza, ma della testa dura, ha insistito che no, noi si parte domani. No, no ha chiosato il cuoco factotum, tu parti oggi, pirlone, e se non ti sbrighi non fai nemmeno colazione; ovvio, dalla sua bocca non sono uscite queste esatte parole, ma senz'altro lo pensava, pensava proprio che mio marito fosse un pirlone, pirlons per gli amici, sprovveduto. Vinti dalla gentile insistenza abbiamo iniziato a rivestirci, mentre ci chiedevamo chi fosse stato a contravvenire alla richiesta di prenotare il treno un giorno più tardi per permetterci un po' di camera di compensazione, prima di affrontare il viaggio degno di Ulisse che ci aspettava. Ci siamo avventurati nel traffico della metropoli e, se ci sembrava brulicante all'alba, il traffico delle sette del mattino ci ha lasciato a mascella pendula. Si può provare ad immaginare una mattina di sciopero dei mezzi in una città italiana, aggiungendo una manifestazione importante, che so io, la finale della coppa del mondo di calcio, unendo una manifestazione di operai arrabbiati e studenti furiosi in contemporanea, condire con un pizzico di tamponamento a catena, pensare ad ottanta tra vespe e motorini che accerchiano un taxi, mentre altri ottanta, con tre o più passeggeri (oggi è proibito anche lì), sfrecciano da ogni lato e, forse, dico forse, ci si avvicinerebbe all'idea del traffico delle sette del mattino a New Delhi, India. Come se non bastasse gli indiani adorano usare il clacson, è forse la parte della macchina che preferiscono e lo amano talmente, lo usano così tanto, a proposito e a sproposito che, se non fosse necessario per la sicurezza stradale, credo che le case automobilistiche che sfornano automobili per l'India lo renderebbero un optional da vendere a caro prezzo.
Gli occhi mi bruciavano dalla stanchezza, i muscoli mi facevano male dalla tensione, sudavo per il caldo terribile e l'umidità che intrideva l'aria come se fosse una spugna. Direi che avevo la sensazione di essere stata inserita in una vaporiera. Lungo la strada, oltre al traffico, il taxista dribblava le pozzanghere profonde quanto il sacro Gange lasciate dal Monsone in fuga, cercava di evitare le vacche e, magari, qualche cadavere; io sbatacchiavo da una parte all'altra del sedile e guardavo mio marito con occhi sbarrati, lui mi ricambiava. Cominciavo a soffocare dentro all'auto, avevo bisogno d'aria, ho aperto il finestrino e, mentre la Ambassador, l'auto più diffusa in India, si fermava per qualche motivo ignoto, da fuori una manina scheletrica ha deciso di entrare nel mio finestrino aperto. Piccole dita stese finivano su un braccino più osso che carne e che terminava in un omino non più grande di un bambino,  il volto secco secco, sporco sporco di fuliggine e chissà cos'altro. La sua faccia senza denti, senza naso, senza un orecchio spuntava da sotto uno turbante di stracci e, mentre lui diceva "Ten Rupees, madam, ten Rupees", il taxista si è attaccato al clacson con una furia rapace, per far sapere che c'era anche lui che partecipava all'ingorgo. Mezzo secondo dopo che è partito il clacson, io ho iniziato ad urlare, un urlo acuto e fastidioso, conseguenza della stanchezza, delle emozioni, della mano nel fienstrino, del naso mancante e dei nervi tesi che hanno reagito al suono del clacson. La mano si è ritirata terrorizzata, pensando di essere lei la causa dell'urlo. Ci sono rimasta male, povero omino incolpevole, comunque non avrei avuto dieci rupie da dagli nemmeno non fosse rimasto li a pregarmi. Dopo un percorso ad ostacoli di sopraffina perfidia siamo arrivati alla stazione. Scesi dalla macchina eravamo pronti per scaricare le valige dal baule, ma al primo tentativo il portellone non si è aperto. Se è per questo neanche al secondo, ma questa è un'altra storia che vale la pena di raccontare da sola. Namaste, Welcome to India.

Nessun commento:

Posta un commento