martedì 23 luglio 2013

IL MORTO


Sono nell’acqua, immobile, gli occhi chiusi, le gambe leggermente divaricate, le braccia aperte a croce, i capelli che si muovono come alghe con dolcezza ed eleganza. Non ci sono onde, nelle orecchie sento friggere il plancton, il suo modo di esprimersi, minuscoli esseri che non appaiono mai, solo di notte si illuminano di luce fosforescente, ma solo se scuoti l’acqua con le braccia. Apro gli occhi, li socchiudo in verità, guardo attraverso le ciglia umide, il cielo è perfettamente azzurro, non una nuvola, non una bava di umidità a rovinare la perfetta armonia col mare. L’acqua è fresca in superficie, più fredda se lascio cadere un braccio o una gamba verso la profondità. Starei così delle ore, cullata dall’acqua, lo sfrigolio nelle orecchie, gli occhi socchiusi. Un rumore, ondine leggere che mi accarezzano la pelle, giro la testa verso destra. Un nuotatore, in perfetto stile, libero e leggero, solca l’acqua con potenti bracciate, muove giusto l’acqua necessaria a spostare il suo corpo, appena è passato il mare torna piatto. E’ così che deve essere, è così che si nuota. Sono rilassata, non penso a nulla. Mi lascio cullare. Un istante perfetto. A riva gli scogli coperti di alghe sono affollati di bagnanti accaldati. Se alzo la testa fuori dall’acqua posso sentire le loro voci, percepire le loro risate. Ma ho la testa immersa nel silenzio della profondità, unico rumore lo sciabordio dell’acqua contro il mio corpo, e, ancora, sì, lo sfrigolio, dolce, cullante, musicale. Respiro lentamente. Riempio i polmoni col naso, e li svuoto allo stesso modo. Mentre espiro, il mio corpo scende un po’ di più verso il fondale, mentre inspiro, mi riempio d’aria, mi gonfio, e salgo su verso il blu del cielo. Io, il mare e il cielo. Un brivido di freddo, è troppo tempo che sono in acqua, devo tornare a riva. Lascio cadere le gambe, faccio in modo che vadano in verticale verso il fondo, chiudo piano le braccia, con un rumore di risucchio riemergo dal torpore. Muovo le gambe, agito le braccia, mi tengo a galla. Mi guardo intorno. Smetto di essere acqua che galleggia sull’acqua, torno ad essere un umano nel mare, ho un peso, la gravità mi attrae anche se un corpo immerso nell’acqua galleggia, riceve una spinta verso l’alto pari al peso del suo corpo. Sì, forse, non lo so. Archimede non lo ricordo mai, e francamente non mi interessa. Diciamo che la mia teoria è molto più grezza e pratica, di solito quando un corpo è immerso nell’acqua suona il telefono. Qui è impossibile, e ci mancherebbe. Guardo il paesaggio, la montagna coperta di alberi verdi, sempre più radi mentre ci si avvicina al paese, le ville col giardino, le case dell’ottocento, quelle degli anni trenta, quelle degli anni sessanta. E quelle dei settanta, che mia nonna detestava. Le vecchie case dei pescatori, il campanile della chiesa. Se vedo il paese e il campanile sono veramente al largo, ho passato la punta che protegge la spiaggia di rocce, sono andata oltre la boa. La corrente mi ha trascinata lì, ho viaggiato restando immobile. Il mio corpo si fa tavola, i piedi cominciano a battere ritmicamente, le braccia diventano remi. Una, due, tre, quattro bracciate, respiro, una, due, tre quattro bracciate, respiro. Tengo il ritmo, nuoto piano. La distanza è lunga. Finalmente è arrivata l’estate.

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