lunedì 20 giugno 2011

QUATTRO PASSI A MADRID

Faceva caldo, come solo a Madrid riesce a fare caldo d'estate. Quel giorno era ancora primavera, inoltrata, visto che era la fine di maggio, ma sembrava luglio. Il sole picchiava come un fabbro sull'incudine e quel pomeriggio il cervelletto mi stava andando in ebollizione. Con mio marito ci eravamo spinti fino ad un parco, tanto per trovare un po' di refrigerio, ma il parco era in quota, in fondo ad una salita infinita, sembrava di camminare in montagna. Era stato tutto inutile anche sotto le fronde l'aria era pesante, rovente e insopportabile. Rientrare in albergo: l'unica soluzione possibile. La passeggiata ci aveva stroncati, eravamo stravolti, accaldati, stanchi. L'aria condizionata ci era parsa una benedizione e il letto soffice una manna. Il sonno ci aveva travolti e, dopo un pisolino in stile iberico, eravamo pronti per la cena. Quella sarebbe stata l'ultima sera ed era giunto il momento di gingillarci con un ristorante etnico dopo aver provato svariate cucine spagnole, nell'ordine non alfabetico: galiziana (superba), catalana, andalusa, senza contare la cucina spagnola contemporanea di fama internazionale. Alla fine del soggiorno di solito scegliamo di mangiare un'altra volta nel ristorante che ci ha colpito di più oppure in uno di cucina diversa da quella del paese che ci ospita. La scelta era caduta sul ristorante libanese, uno delle cucine che mio marito predilige, consigliato da non ricordo più chi. Avevamo rimediato l'indirizzo sulle pagine gialle e controllato sulla cartina quale fosse la fermata della metropolitana più vicina.  Il ristorante si trovava sulla Calle Serrano, una delle vie principali di Madrid, zona di shopping d'alto bordo coi negozi più chic e tradizionali, era spostato rispetto all'asse centrale su una piazza. Mio marito aveva scelto la fermata della metropolitana Serrano che aveva reputato sufficientemente vicina, ma abbastanza lontana da fare quattro passi e godersi il panorama e il pulsare della città. Una delle cose che ci piace di più fare quando siamo in una città che non è la nostra. Dunque, quella sera siamo scesi dalla metropolitana e ci siamo avviati lungo la rutilante Serrano coi negozi in chiusura. I dettagli sono leggermente sfocati nella mia mente e forse sbaglio la numerazione, ma il succo del discorso rimane lo stesso. Noi ci trovavamo al numero 900 circa e dovevamo andare al 1400, una passeggiata, insomma. Intanto continuava a fare caldo, caldo secco precisa mio marito ancora oggi, quindi non letale secondo lui. Sì, ma sempre un caldo infernale, dico io. L'asfalto rilascia tutto il calore accumulato durante la giornata e col suo alito rovente mi lambisce le caviglie oramai gonfie. In breve tempo percorriamo i numeri del 900 al 1200. Ho sete, lo dico col tono di una bambina lamentosa. Mi marito risponde come si risponde ai bambini lamentosi "Tra poco arriviamo". E' vero siamo già al numero 1380, circa. Sede di un'ambasciata, facciamo quella russa tanto per dare un'identità al luogo. Ecco, da quel momento inizia l'incubo. Ogni numero sono cento metri, cento metri di giardino d'ambasciata, di uscite di sicurezza d'ambasciata, di cancelli blindati d'ambasciata, di guardie d'ambasciata. Camminiamo e siamo sempre di fronte al muro di cinta di quella russa, camminiamo ed arriviamo di fronte a quella turca e per infiniti passi siamo sempre di fronte a quella turca. Scopro di odiare le ambasciate. Verso il numero milletrecentonovanta ho un mancamento, sudo ho i piedi ridotti ad un ammasso gonfio e pulsante, la gola arsa dalla sete, sono stravolta. Neanche un baracchino, un bar, una fontanella per dissetarmi e proseguire in souplesse la mia gita. Mi sembra di stare in mezzo ad un deserto, un deserto maledettamente in salita. Eh, siamo nella zona delle ambasciate sulla favolosa Calle Serrano a Madrid, una vera pacchia. In lontananza sulla sinistra vediamo la sagoma dello Stadio, il Santiago Bernabeu, dove l'Italia ha vinto la terza coppa del mondo. Non riesco nemmeno a fingere entusiasmo dico solo: "Pensa che caldo doveva fare quel giorno di luglio" e ho la bocca impastata. Le auto sfrecciano lungo la via. Le auto, amo le auto. Auto! "Fermiamo un taxi!" urlo e mio marito dice "Ma, dai siamo arrivati". Mancano ancora dieci numeri, dieci ambasciate immagino coi loro giardini, le loro belle entrate per le auto, i loro muri di cinta, ma per mio marito siamo arrivati. D'accordo, lui ne sa più di me, ha guardato la cartina e magari adesso le ambasciate si diradano. Neanche per sogno. Ogni numero, cento metri. Poi, di colpo le ambasciate finiscono e ricomincia la numerazione normale. Io sono letteralmente in ambasce, arriviamo stravolti al ristorante e oramai insulto mio marito ad ogni passo "Giuro, mai più mi fiderò della tua lettura delle cartine". Entriamo nel ristorante un'ora più tardi di quanto avessimo programmato, è triste e mal arredato. Ci sediamo comunque, ci mancherebbe altro, con la fatica che abbiamo fatto ad arrivare fino a qui. Ordiniamo una birra. La scoliamo in un solo fiato tutti e due, come soldati di ventura longobardi alla fine di una razzia. Una cosa del genere era già successa in un'altra città, ma quella volta era volontaria e la birra era buonissima. Qui anche la birra fa schifo e ci va subito alla testa che diventa leggera e vaporosa. La cena eguaglia la qualità della birra. Neanche la consolazione di cena decente, accidenti. A fine serata siamo tornati in albergo, con la metropolina: 5 minuti di camminata verso la fermata, 10 di percorso sotto terra. All'andata ci avevamo messo un'ora e un quarto. L'amico che ci ha dato il nome di quel ristorante quella sera non sarà riuscito a dormire da tanto gli fischiavano le orecchie, mio marito ha pazientemente sopportato ogni mio commento. Anche i più gentili.

P.S. La numerazione non è fedele all'originale, se qualcuno di voi la conoscesse per favore me la comunichi, i miei ricordo sono sfocati. 


TORTILLA DI CECI E BIETOLE
Quella sera abbiamo mangiato la peggior versione di cucina araba/libanese della nostra storia gastronomica insieme, mio marito ed io. Un'accozzaglia di sapori messi insieme alla rinfusa, senza amore e attenzione. Quindi non darò ricette arabe come potreste pensare, bensì spagnole. 


400 gr di ceci lessati - 500 foglie di bietola - 6 uova - 1 cipolla tritata - 1 spicchio d'aglio - 1 peperoncino fresco tagliato a fettine sottili (opzionale) - 2 cucchiai di prezzemolo tritato - 6 cucchiai di olio evo - sale pepe

Scaldare 4 cucchiai di olio in una padella, aggiungere la cipolla, l'aglio tritato, il peperoncino. Soffriggere a fuoco basso per 10 minuti. Eiminare la costa dura delle bietole e sminuzzare le foglie, aggiungerle al soffritto insieme ai ceci e cuocere per 5 minuti. Togliere dal fuoco. Sbattete le uova, unire il prezzemolo, sale e pepe. Amalgamare insieme alle bietole e ai ceci. Nella padella aggiungere il resto dell'olio, versare il composto e cuocere a fuoco basso per 10 minuti, capovolgere e proseguire la cottura per altri 5 minuti. Sevire a temperatura ambiente.
per sei persone

P.S. Posso concedervi i ceci in scatola, se avete molta, molta fretta. Questa tortilla è l'ideale per un pic nic estivo con un bicchiere di vino bianco gelato e pane fragrante. 

2 commenti:

  1. Come diceva Jacques de La Palice, è molto meglio avere delle basse aspettative e poi ricredersi, che fidarsi di un consiglio (dopo più di un ora di cammino) e pentirsene!

    ;-)

    Roberto

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