martedì 5 luglio 2011

CENA A SAN FRANCISCO

San Francisco è bellissima, peccato che, come ha detto Mark Twain "L'inverno più rigido della mia vita è stato l'estate che ho trascorso a San Francisco". Una città magnifica con un clima birichino. Attraversando il Golden Gate Bridge il clima cambia. Se per esempio a Sausalito giri in costume da bagno, è quasi sicuro che dalle parti di Nob Hill (un quartiere molto chic della città) un maglioncino ci voglia. Quando arrivano le nebbie dall'oceano la temperatura si abbassa di colpo, la città assume un aspetto invernale, anche se è luglio, la nebbia filacciosa avvolge tutto e le nubi basse corrono di quartiere in quartiere, conferendo alla città l'aspetto di un film francese del secolo scorso (citazione: °Quai des brumes-Porto delle nebbie" di Marcel Carné con Jean Gabin). Questo è il suo grande fascino, nel resto della California è sempre primavera, a San Francisco è inverno quando meno te l'aspetti. E' la città dove mio marito sceglierebbe di vivere, ama molto le sue strade in saliscendi, le sue colline verdi, la vitalità della sua gente, l'anima pulsante di Chinatown, che è la comunità cinese più grande al mondo dopo la Cina, la sua cultura, e trova affascinante anche il suo snobismo, paraagonabile solo a quello di New York. Io la amo per la sua anima multietnica e la sua gastronomia varia come sono vari suoi quartieri per atmosfera e cucina. Qui in pratica è stata inventata la cucina americana moderna, qui si mettono alla prova i grandi chef. La varietà è tale che se uno decide di cambiare tipo di cucina tutte le sere per un mese non mangerà nello stesso posto o assaggerà qualcosa di uguale. Ho degustato il miglior ceviche della mia vita in un ristorante peruviano di Castro, una domenica a mezzogiorno facendo la coda con la famiglie peruviane al completo. A Japantown, il quartiere giapponese, sulla Post street, ho scoperto per caso un posto dove servono piatti di grande classe sospesi tra occidente e oriente. E' qui che Alice Waters, la guru del cibo naturale e biologico, ma super squisito, si esprime al meglio nel suo ristorante Chez Panisse. Non so se ci vivrei, io ogni tanto ho voglia di avere caldo, veramente caldo, ma questa città è il paradiso per un'appassionata di cucina come me.
Nel tardo pomeriggio di una giornata di primavera, ed era effettivamente primavera anche a San Francisco, mio marito ha espresso il desiderio di andare a vedere se esisteva ancora l'YMCA dove era stato con un amico da ragazzo. Si ricordava perfettamente l'indirizzo e il luogo, era compresso tra le rive dell'oceano in quella zona piatta che dà inizio alla salita verso uno degli hill (colline) della città. Lui pensava che, vista la quantità di anni trascorsi, non esistesse più nulla ed invece l'ostello era ancora lì, in piedi in tutta la sua gloria. Davanti al portone ragazzi con lo zaino chiacchieravano e ridevano. I ricordi ci hanno assalito, forse un attimo nostalgia per i primi viaggi a guardar le stelle da un sacco a pelo, ma è durato un attimo perché questa città è troppo bella per intristirsi. Era quasi ora di cena e abbiamo cominciato a guardarci intorno, ma niente soddisfaceva i nostri occhi. Mio marito ha un talento speciale: guarda un ristorante, ne soppesa il nome, ne coglie l'atmosfera e, senza nemmeno leggere il menu esposto, decide che mangiare lì sarà l'esperienza migliore della tua vita. Non ha quasi mai sbagliato la scelta, solo una volta, a Rio de Janeiro, mi ha portato in un posto terribile, ma devo ammettere che nel ristorante c'era una bella atmosfera. Quella sera a San Francisco il suo fiuto da segugio ha individuato un ristorante che aveva già addocchiato il giorno precedente. Si chiamava, e si chiama, Boulevard. Un posto elegante, ma senza essere pretenzioso, con un lato easy che distingue molti grandi ristoranti in città. Boiserie marinare si mescolavano a tappezzerie leggermente art déco, grandi finestre con vista sul Golden Gate e soffitti di mattoni color ocra creavano l'atmosfera di un pub in bilico tra Dublino e Parigi. Il posto brulicava di gente ed erano solo le sette di sera, che negli Stati Uniti è un orario abbastanza di punta, e anche la trasgressiva San Francisco non fa eccezione alle cene che per noi italiani sarebbero merenda. Al nostro ingresso ci accoglie la solita hostess bellissima ed elegante che ci porge la domanda d'obbligo, in tutto il mondo, ma soprattutto negli USA, "Avete prenotato?". Certo che no, non sapevamo che saremmo venuti qui a cena, lei scorre il registro delle prenotazioni come fosse la maestrina dalla penna rossa. "Purtoroppo siamo al completo", due faccine deluse la guardano, già ci piaceva tanto quel ristorante, "Però se volete c'è posto al bancone, se non vi da fastidio. Ve lo mostro". Ci fa strada tra i tavoli dove addocchiamo piatti di pesce e altre prelibatezze che sfrecciano trasportati da camerieri in tenuta da bistrot. Il bancone è una porzione della cucina, praticamente un'isola che esce dall'acciaio inox e luce bianca di una cucina professionale con tutti i crismi, ed entra nella sala da pranzo. Cinque chef giovani e, devo dire, piuttosto belli lavorano su fornelli che convivono con un bancone sopra il quale è stato apparecchiato in modo molto elegante. Gli alti sgabelli permettono agli avventori di seguire il lavoro degli chef. "Se non vi da fastidio (lo ripete, accidenti), ho due posti lì" e la bella hostess ci mostra due sgabelli vuoti davanti ad un ragazzo biondo che spadella e sorride, sorride e spadella. Nota per le signore: è bellissimo, uno dei più bei ragazzi che io abbia mai visto nel circuito culinario mondiale. Ma quale fastidio, per me è il paradiso. Ci arrampichiamo sugli sgabelli. Arriva la carta e scegliamo le pietanze, iniziamo con dei frutti di mare della Baia, seguiti da un piatto di pesce. Ordiniamo il vino: un Albarino spagnolo, delle Rias Bajas, di solito avremmo ordinato un vino italiano, ma questa sera siamo nostalgici della Spagna. Intanto il giovane chef davanti a noi prepara halibut con verdure saltate e un piatto vegetariano e noi seguiamo ogni suo movimento. Mette un trancio di halibut in padella, in un'altra padella fa saltare le verdure e si abbassa leggermente sotto ai fornelli,  tira fuori un'altra padellina, sala il pesce, salta ancora le verdure, prende il pepino, un giro di pepe sulle verdure e sul pesce, mette un altro halibut nella nuova padellina, testa la cottura del pesce con una spatola, sale sulle verdure, si gira prende qualcosa che gli passa un collega, impiatta l'halibut, dispone le verdure sul piatto, prende il pesce con la spatola lo mette sulle verdure, suona un campanello, arriva il cameriere, mette le padelline usate sotto i fornelli. Sembra un ballerino, si muove con movimenti brevi, secchi e precisi, economizzando le energie. Ricomincia con un altro halibut. Arriva un ragazzo, toglie le padelle sporche da sotto il banco, ne aggiunge delle altre. Noi siamo intenti a guardare bevendo acqua e arriva il direttore/socio/sommelier del ristorante. Buonasera, dice. Buonasera, rispondiamo. "Ho visto che avete ordinato un Alabrino, purtorppo non è a temperatura, posso suggerirvi uno Chardonnay californiano?". Mio marito non ama molto i vini californiani, troppo aromatici, troppo barricati, lui ama cose semplici, gusti netti. "Guardi, ero indeciso, quindi preferirei prendere il Verdicchio delle Colline di Matelica che avete in lista.". Di solito mio marito non è così antipatico, ma gli Chardonnay californiani sono proprio uno scoglio che non riesce a superare. Il direttore sembra deluso, ma parte a prendere quanto abbiamo ordinato. Arriva col nostro vino, assaggiamo, non sa di tappo e ce lo versa. Sorseggiamo mentre aspettiamo la cena e ci godiamo lo spettacolo del ballerino-cuoco. Halibut in padella, verdure, sale, verdure, pepe, impiattare, campanello, padelle sotto, ripetuto all'infinito, sempre con gli stessi gesti veloci, ma ipnotizzanti. Si avvicina il direttore, con due bicchieri e una bottiglia "Le posso chiedere perché non ama gli chardonnay locali?", intuendo l'ostilità di mio marito per quel tipo di vino. Mio marito spiega. Lui versa del vino bianco nei bicchieri. Chardonnay, dice mio marito. Cosa ne pensa? Ottimo e apprezza convinto. E' un californiano. Accidenti, vedi che c'è sempre da imparare nella vita, dice mio marito al direttore. "Non è barricato, il gusto è bello secco, come piace a me. Posso avere il nome dell'azienda produttrice?". Trionfante il direttore dice "Non è in commercio, lo produco io, è il mio vino". E riempie il bicchiere. No, no, basta abbiamo già questo. Deve guidare? No. Allora beva alla mia salute. I camerieri si affollano attorno a noi, il giovane e bel cuoco chiacchiera mentre prepara il suo halibut e ci racconta che fino a ieri preparava il tonno (Ahi Tuna), il direttore passa periodicamente a riempire i nostri bicchieri di Chardonnay, noi scoliamo tutto il Verdicchio. A fine serata siamo molto più che leggermente alticci, ma la nostra uscita dal ristorante ce la ricordiamo benissimo. A salutarci ci sono nell'ordine: il direttore, lo chef (quello col nome scritto sulla giacca), il sous chef, il bello dell'halibut (eccellente, per altro), la hostess d'accoglienza e forse anche il parcheggiatore. Tutti schierati e noi ci siamo sentiti dei divi, come mai ci siamo sentiti in vita nostra, e tutto perché l'Albarino non era abbastanza freddo. Meditate, gente, Meditate.

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