martedì 3 aprile 2012

L'INSOSTENIBILE TRASPARENZA DELLE VETRINE A COPENHAGEN

Una vetrina perfetta a Copenhagen
Premetto che sono una grande camminatrice, di quelle instancabili, che, un piede dietro l'altro, macinano chilometri e chilometri senza accorgersene. Ho preso quest'abitudine da piccolissima, quando circumnavigavo il tavolo di rame che i miei genitori avevano messo tra due divani e una poltrona arancione, le manine appoggiate al bordo giravo, giravo, giravo tutt'attorno per interi pomeriggi. Mia madre si è sempre chiesta come potessi fare girotondo per ore senza avere nemmeno un filo di nausea, divertendomi. Non mi annoiavo, perché immagino che facessi quello che faccio adesso: penso agli affari miei, a quello che ho mangiato a pranzo, ad un racconto da scrivere, ad una nuova avventura; all'epoca forse ero un po' più terra terra e pensavo a come raggiungere il gioco rimasto piantato sotto al tavolo, dove c'erano le sedie di teak che ricordavano quelle di Arne Jacobsen, o a come smontare un'intera scatola di biscotti polverizzandone il contenuto. Adesso che ci penso la poltrona arancione, quella della mia infanzia, un magnifico modello degli anni cinquanta, senza braccioli, le gambe di metallo scuro, di design nordico, può essere stata la causa scatenante di questo racconto. Sì pensandoci bene, se non fosse stato per quella poltrona e le sedie attorno al tavolo dei miei, che oggi sono attorno al mio tavolo, non sarebbe successo quello che è succeso. Adoro camminare, adoro il cibo e la cucina, ma c'è un'altra cosa che solletica la mia mente: il design, soprattutto di modernariato. Vado pazza per le cose degli anni quaranta, cinquanta, sessanta e perfino settanta, non disdegno le cose anni ottanta, ma nemmeno quelle dei novanta mi sfuggono, anche se fossero dell'anno tremila, ecco, io impazzirei, basta che sia un oggetto di design. E allora, cosa c'è di meglio che un tuffo tra gli oggetti del desiderio in un paese che ha fatto del design uno dei suoi fiori all'occhiello, dove ogni oggetto è trattato come uno di famiglia, dove anche un ramoscello spoglio prende vita e diventa qualcosa di bello e fantasioso, dove ogni cosa ha un motivo per esistere e decorare. I piatti bianchi e blu con la data sono solo uno degli oggetti, forse i più banali e comuni, che si possano incontrare passeggiando per le strade di Copenhagen.
Ecco, io all'improvviso mi sono trovata catapultata nel paradiso della spulciatrice del modenariato e felice come un topo nel formaggio, operosa come un'ape su un fiore ho cominciato svolazzare tra un negozio ed un museo, tra un grande magazzino e un rigattiere, tra una teleria e un argentiere. Svolazza qui, svolazza là con gli occhi ho comprato tutto, in realtà poco e niente. Perché il tavolo in puro stile nordico degli anni cinquanta non lo puoi trasportare come bagaglio in stiva sull'aereo, soprattutto con le ristrette politiche sul bagaglio di alcune compagnie aeree; la poltrona di pelle marrone dal design essenziale, pur essenziale non può essere spacciata come borsa a mano e nemmeno quella lampada speciale, col cappello di vetro opaco e la forma anni settanta, non può passare per un ombrello un po' fuori misura. Mi sono dovuta consolare con l'acquisto a prezzo stracciato di una magnifica tovaglia dai grandi fiori accattivanti, molto Swinging London, neri e verdi che poteva stare tranquillamente dentro la mia valigia. Più che altro ho allenato le gambe e gli occhi. Ho sbirciato tante vetrine per ore e ore, senza pausa, per chilometri e chilometri, senza posare le ossa nemmeno per un istante, fino allo sfiancamento fisico nonché mentale.  Nel tardo pomeriggio del primo giorno ero già un ammasso di gambe dolenti e muscoli duri. Non paga delle mie avventura pomeridiane, alla sera, dopo una deliziosa cena, in un posto dal fascino nordico, affollato ed allegro, ho deciso di concedermi quattro passi per tornare in albergo. Quattro passi assaporando le vetrine rutilanti di luci e sfavillanti di oggetti favolosi. Ho proseguito a zig zag come un ubriaco guardando ora una vetrina da un lato della strada, ora una dall'altro. Attraversavo la strada per ammirare un cassettone dalle linee essenziali appoggiato ad una parete bianca, riattraversavo per dare un'occhiata ad una lampada un po' barocca posta davanti da un quadro astratto; passavo sulle strisce pedonali per analizzare la superficie levigata di un tavolo ovale perfetto nella sua essenzialità; mi sembrava di essere su un otto volante di opportunità perdute mentre guardavo una poltrona senza braccioli uguale a quella della mia infanzia. Sospiravo e avevo languori per oggetti che non avrei mai potuto avere per mancanza di spazio e impossibilità di trasporto. E poi è apparsa lei, una vetrina d'angolo dall'altro lato della strada, la serranda abbassata, ma con la la luce vibrante. Dentro era tutto bianco e c'erano tanti oggetti, oggetti bellissimi, pronti da guardare, pronti da sospirare. Immobile, come folgorata ho aspettato che le poche macchine e le bici sfreccianti mi lasciassero il passo e di corsa ho attraversato la strada, attratta come una falena dalla luce calda. Come un'innamorata che incontra per la prima volta dopo molti mesi l'innamorato, vedevo solo oltre la vetrina, brillante, pulitissima, trasparente, e il suo interno era pieno di tesori come una caverna di un Ali Babà nordico. Mi sono avvicinata di corsa, le braccia quasi aperte ad accogliere l'abbraccio affettuoso di quegli oggetti che ammiccavano sornioni. E poi un tonfo, un ronzio, una specie di gong che suonava nelle orecchie, rimbalzava nel cervello, vibrava nel mio corpo, come se avessi ricevuto un bacio mozzafiato. Sono rimbalzata contro il vetro freddo come una pallina di gomma sul muro, ho ondeggiato come Pippo quando sbatte contro un palo, ho vibrato come Vil E. Coyote quando sbatte sul fondo del Canyon. Mi girava la testa, l'emozione è svanita per lasciare posto alla vertigine, al sangue in bocca, alla botta sonora che ho preso contro la vetrina, troppo pulita, troppo piena di belle cose, troppo trasparente e pulita, quella fetente. Non so cosa ci fosse dentro al negozio, i miei occhi pieni di lacrime mi hanno impedito di scoprirlo, e non lo saprò mai, perché il dolore lancinante mi ha impedito di girarmi e guardare all'interno. So però cosa c'era sulla mia bocca il giorno dopo, un gonfiore violaceo, che assomigliava in maniera inquietante ad un mezzo baffetto alla Hitler; ho netto il ricordo del sublime dolore alla spalla, al braccio e alla mano spalmati sul vetro freddo; porto ancora i segni sul naso di un incontro involontario con la superficie perfettamente liscia e trasparente, dura come solo può esserlo un vetro antiproiettile. Avverto ancora nelle orecchie il suono delle ossa che scricchiolano pericolosamente nell'impatto e sento ancora il suono lontano, come di campane tibetane, che ha risuonato nelle mie orecchie a lungo. E provo un odio profondo per le serrande che stanno dentro al negozio, lontane quaranta centimetri dall'immacolato vetro che dà sulla strada.

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