lunedì 23 aprile 2012

IL GIRO DI SUSANNA

Il negozio della Lego a Copenhagen, sogno proibito di ogni bambino
Eravamo un gruppetto di bambini piuttosto vivaci, maschi e femmine, di età variabile tra i cinque e i dieci anni, uniti dalla voglia di giocare fino a collassare. I giochi che sceglievamo erano un classico dell'epoca: "Regina, Reginella", "Campana", "Indiani e Cowboy", "Nascondino", "Un, due, tre stella!" (che è un gioco, e non una trasmissione televisiva) e, dulcis in fundo, "Soldatini" e "Barbie" questi due si alternavano tra i bambini e le bambine, un giorno tutti si giocava con le Barbie, il giorno dopo con i Soldatini. Tutti insieme appassionatamente. Avevamo anche varianti sul tema del tipo "Dolce Forno", "Meccano", "Lego" "Mamma e Figlio" (qui i ruoli erano stabiliti: una femmina (così si diceva) faceva la mamma, un maschio il figlio, mai il contrario) e infine "Scaviamo le fondamenta per costruire una capanna", quest'ultimo effettuato con badili veri e carriole recuperate chissà dove. La capanna non ha mai visto la luce, ma alcuni di noi portano ancora i segni su varie parti del corpo del contatto con un badile mal maneggiato. Giocavamo in strada, e rientravamo a casa solo quando le mamme reputavano che fossimo abbastanza sporchi da meritare un bagno. Di solito molto tardi, così erano più libere di fare gli affari loro questo lo capisco solo ora, ai tempi mi pareva una cosa di grande libertà. Spesso c'erano una o due mamme a controllare che i giochi non degenerassero in cose più violente, cosa che raramente accadeva. Spesso si litigava, e entrambe le parti coinvolte di solito tornavano a casa piangenti, scornate e sconfortate. Spesso il giorno dopo uno dei bambini amici, quasi sempre lo stesso, faceva operazioni di alta diplomazia, per riappacificare le parti in lite, la maggior parte delle volte ci riusciva e si continuava a giocare; a volte no, e un silenzio irreale calava nella via perché se due avevano litigato si smetteva di giocare e si stava ognuno a casa propria. Per questo i litigi erano mal tollerati da quelle parti. Vivevamo in una zona privilegiata, villini e case basse circondate dalla pineta, poco lontani dal mare e con molto spazio a disposizione, ma non eravamo in campagna. Le mamme avevano stabilito dei limiti alla nostra libertà, il nostro perimetro operativo era una sorta di enorme quadrato, quasi rettangolo, forse un pentagono con un lato in meno, insomma non aveva una forma precisa perché non era perfettamente simmetrico: da un lato la ferrovia i cui binari correvano in basso in una sorta di gola tra la pineta e il muro sovrastato da una griglia protettiva di ferro dipinta di grigio, la strada non correva esattamente parallela, ma faceva una sorta di diagonale. Un altro lato, un po' più lungo, sfiorava un enorme campo sabbioso, abbandonato, pieno di sterpi e ciuffi di erba secca, vecchi legni, pietre, era il luogo che noi avevamo eletto ad ospitare la nostra capanna mai nata; un altro lato corto, costeggiava la villa di un ricchissimo palazzinaro che aveva inferriate alle finestre, la villa non il palazzinaro, e una recinzione di ferro alta, piena di punte e decorata con il gelsomino; ogni tanto entravamo in quella casa, che ci incuteva timore, tanto era grande e un po' buia, una sorta di antro con le tapparelle abbassate per il caldo, perché era sempre e solo estate ed era arrivata la figlia del palazzinaro, che era bellissima, elegantissima e aveva la nostra età, simpatica ed ospitale si univa al gruppo, e ci invitava a merende sontuose organizzate e presiedute dalla tata filippina. L'ultimo tratto costeggiava la Darsena, oltre la quale c'era il villaggio dei pescatori dove si arrivava attraversando il ponte, era una zona proibita a tutti noi, le mamme temevano che potessimo cadere e affogare nell'acqua melmosa della darsena. Ricordo perfettamente le spedizioni verso il villaggio dei pescatori, in silenzio, tutti in fila imitando i gesti degli indiani visti nei film western, armati di archi e frecce, mocassini immaginari ai piedi e penne inesistenti piantate sulle nostre teste come veri Piedi Neri, eravamo pronti a nasconderci e a prepararci al lungo assedio del villaggio, tutto questo di nascosto dalle mamme. Ovviamente venivamo scoperti e puniti con svariati giorni di giochi casalinghi, ed ecco che entravano in azione i Lego, Meccano, Dolce Forno, insomma più che una punizione diventava una festa per piccoli delinquenti agli arresti domiciliari. Il nostro quadrilatero aveva anche un nome, sul lato della casa del palazzinaro si chiamava il Giro Corto, perché, lo dice la parola stessa, era più corto dell'altro che, invece, prendeva il nome di Giro di Susanna. Non ho mai saputo chi fosse Susanna, e perché fosse dedicato a lei questo giro lungo. Una volta ho provato a chiedere ai bambini che vivevano lì da più tempo, e che avevano sorelle o fratelli più grandi, ma mi hanno risposto che il Giro di Susanna si era sempre chiamato Giro di Susanna e che nessuno sapeva perché. Insomma una tradizione che si perdeva nella notte dei tempi.
C'era una cosa che amavamo molto fare: andare in bicicletta, era il nostro sport preferito dopo "Scaviamo le fondamenta per costruire una capanna". Ognuno di noi era fornito di una bici, di solito una Graziella un po' vecchiotta, che veniva preparata per le nostre scorribande. Si intende preparata proprio come un motorino o una macchina vengono truccati per correre più veloci, però le nostre bici non dovevano correre veloce, dovevano fare tanto rumore, dovevano avere il suono di un motorino un po' petomane, un po' affetto da tosse asinina. Per ottenere questo suono cacofonico erano necessari accessori ad hoc. Truccare la bici era una cosa seria: bisognava trovare il contenitore da verdura giusto, i preferiti erano quelli blu, un po' alti, e non troppo duri, perché così si potevano piegare più volte, e piegarlo nella maniera più corretta era un 'arte. Essenziale era che la striscia ottenuta dal contenitore non si distruggesse dopo un giro in bici, doveva durare un po' di tempo, anche perché non se ne trovano molti di contenitori blu di buona qualità. Importantissima era la molletta che serviva ad attaccare la striscia piegata alla bicicletta, doveva essere più nuova possibile in modo da avere l'esatta presa sulla forcella posteriore, la presa avrebbe permesso alla striscia di non muoversi e di fare il giusto rumore scoreggiante e tosseggiante. Le nostre madri non erano molto contente del furto dei contenitori, che di solito avveniva non appena questi arrivavano in una casa, ma soprattutto erano disperate per la sparizione delle mollette che si rompevano con grande facilità. Alla fine della preparazione c'era il rito di attacco della striscia: in ginocchio sul retro della bici uno la posizionava facendole sfiorare i raggi nella maniera giusta, un altro in piedi sollevava il retro della bici e insieme si saggiava il rumore facendo girare la ruota. Una volta soddisfatti si inforcava il bolide e si urlava alla mamma "Vado a fare il giro di Susanna, non so quando torno", si partiva pedalando come forsennati, una decina di bici truccate e rumorose. Si pedalva veloci, con l'aria che sapeva di mare, di pino, di sabbia sulla faccia per uno, due, tre, quattro, infiniti giri. A volte uno di noi cadeva, urlava, si sbucciava mani e ginocchia, risaliva e lacrimante, la striscia saltata, la molletta persa tornava mogio a casa, invariabilmente solo. Il resto della truppa proseguiva verso il giro corto, pronto per un altro vertiginoso giro di Susanna, pedalando a perdifiato e cinicamente incurante delle sofferenze fisiche e psicologiche dell'amico.

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