mercoledì 2 novembre 2011

STRISCIA LA CENA IN CINA

Il magnifico panorama, in cima alla collina di sinistra un pezzo delle muraglia
Ci eravamo trasferiti da poco in Cina. Una Cina in bilico tra passato e futuro, ancora più di oggi, un paese dove le biciclette la facevano  da padrone e dove le macchine erano una rumorosa rarità. Per poco, come avremmo potuto constatare. La nostra residenza era stata fissata nel villaggio di Weng Ling, ai confini con la Mongolia Cinese, un'amena e ridente località abitata da cinquecentomila persone, detta il "pantofolificio" tanto era bella.  Porre l'attenzione sulla parola villaggio per definire un luogo che ha più abitanti di Firenze. Le temperature estive oltrepassavano i trenta gradi, quelle invernali scendevano fino all'estremo opposto, quando faceva caldo potevamo contare sui meno venti gradi, il vento era un regalo quotidiano, ma solo d'inverno, d'estate l'aria era stagnante. Il lamate fulminanti di aria gelida che penetravano nelle poche fessure delle giacche a vento, la secchezza dell'aria che inaridiva le mucose provocando ulcere dolorose, il cielo bianco venato di grigio, insieme al ghiaccio, erano l'accompagnamento ideale delle nostre splendide e attive giornate invernali. Il panorama era brullo, terroso e polveroso, quattro striminziti alberelli, alti poco più di trenta centimetri, provavano eroicamente a crescere protetti da piccoli cumuli di terra su colline spoglie e tristi. Gli alberi, quelli centenari, erano stati tagliati per aiutare il Grande Timoniere verso il progresso del "grande balzo in avanti" più di trent'anni prima. La grande muraglia, orgoglio nazionale, era un cumulo di terriccio e pietre che tagliava i campi. Il rivestimento del muro e delle torrette di avvistamento era stato usato nei secoli per delimitare i confini, l'acqua aveva fatto il resto regalando a  noi la vista di un ammasso di terra sconnesso. Lì la Muraglia non era l'opera lustra e bella di Pechino, quella che orde di turisti visitano a frotte ogni anno. Tutto questo paesaggio era coperto da un sottile strato di fuliggine dovuta al carbone col quale tutti ci riscaldavamo, ogni oggetto della casa assumeva il caratteristico aspetto grigiastro a contatto con la grassa polvere nera. Un gran bel posto per viverci.
Il sabato sera c'era sempre un gran movimento,  organizzavamo uscite e cene fuori, grandi mangiate di cucina locale e grandi partite a bowling o fantastiche cantate al Karaoke nella città vicina, una ridente cittadina di un milione di abitanti fornita di ogni confort, persino un mercato coperto dove trovare tutto, ma proprio tutto, persino, meraviglia, la lampada che si accendeva e spegneva sfiorandola. La fuliggine qui si faceva più densa e spesso d'inverno, nonostante il vento tagliente, sembrava che ci fosse la nebbia. Dunque, noi uscivamo spesso a cena. L'uso delle bacchette era d'obbligo, non esisteva altro sul tavolo dei ristoranti. Alcuni erano riusciti a convincere i padroni di alcuni locali che frequentavamo più assiduamente a proporre coltello e forchetta. I risultati dell'igiene di questi oggetti metallici erano di dubbia qualità, principalmente per l'inesperienza dei ristoratori a quel tipo di posata. Non è necessario dire che i "forchettari" erano guardati con estremo sospetto dai locali.  I ristoranti erano simili al panorama circostante, un po' tristi e ambigui, ma si mangiava bene e naturale. Soprattutto fresco. Entrando nei locali c'erano grandi vasche e grandi bacheche piene di pesci, animali e crostacei. Vivi e vegeti, che ti guardavano e sorridevano mentre entravi. Poco dopo li avresti mangiati, ma loro non lo sapevano. NOn ho mai visto un pollo, una gallina o un maiale in queste bacheche, ma immaginavo, nei miei deliranti pomeriggi invernali, un'ampia e spaziosa aia dove il capo cuoco rincorreva con una mannaia gigante l'animale prescelto per il mio piatto. Una sera eravamo nel nostro ristorante preferito, al nostro solito tavolo, quello dei VIP, ormai nostro ad aeternum vista la quantità di Remimbi (Yuan) che lasciavamo settimanalmente al padrone, e abbiamo deciso di vivere pericolosamente. Assaggiamo il serpente, era stato l'urlo di battaglia. Qualcuno era restio, altri entusiasti, altri ancora perplessi, ma curiosi. E serpente fu.
I menù, inizialmente proposti in lingua locale e in tutto il loro splendore di ideogrammi erano stati gradualmente sostituiti con quelli in inglese con risultati esilaranti nella scelta dei vocaboli. Però sul nostro menu non era stata inserita la scelta di piatti a base di serpente, forse nella certezza che quegli strambi degli occidentali non avrebbero avuto voglia di assaggiare una prelibatezza simile. Il più intraprendente fra di noi non ha avuto esitazioni e ha portato il cameriere nelle gabbiette dell'ingresso, tutte di forme deliziose, dal tronco di cono alla cupoletta, di bambù e di diverse dimensioni, dove stazionavano serpenti più o meno grassi, più o meno lunghi, ma dello stesso triste colore grigio. Ha mostrato quella che per noi sarebbe diventata la cena. Il cameriere ha annuito, ma noi non abbiamo assistito alla scena perché il tutto era nascosto dietro alla tenda di velluto blu anti vento freddo. Dopo un po', io ero di schiena accanto alla mia amica e stavo amabilmente conversando, quando fra noi due si è frapposto il cameriere che con un gesto elegante ci ha messo sotto gli occhio le sue mani smilze. Sobbalzo, anzi grosso urlo. Il cameriere, tra pollice e indice della mano destra  teneva la testa del serpente che tirava dentro e fuori la lingua, con la mano sinistra e il resto della destra cercava di tenere fermo il corpo della strisciante bestia che sbatteva da un lato all'altro in un disperato tentativo di fuga. Ad un certo punto il serpente si è anche messo a soffiare, non proprio amabile. Nel frattempo con un cenno del capo il cameriere mostrava il rettile al nostro amico, voleva essere sicuro che lui vedesse che era proprio quello scelto dalla gabbia. L'altro ridendo annuiva. Rideva perché il panico era calato sulla tavola come la nebbia al carbone di quell'inverno cinese e lui godeva a vedere la reazione del pubblico. E se il serpente fosse scappato? Magari atterrando sul mio grembo? Gulp. Passato il momento, abbiamo ordinato il resto della cena seguendo il normale percorso del menu: pollo, maiale, verdura.
Poco dopo è arrivato il nostro antipasto, bile di serpente diluita in un liquore semi dolce, in apparenza sakè, ma forse vino dolce cinese. Una vera porcheria, ma pare che faccia bene a tutti, compresi gli uomini la cui virilità viene a mancare. Mah. Poi è arrivata la pelle, forse fritta, forse messa sulla piastra, non lo sapremo mai perché nel ristorante non parlavano nessuna lingua che non fosse il dialetto locale, nemmeno il mandarino. Altra porcheria, ma croccante. Poi è arrivata la carne, stopposa e filacciosa cotta senz'altro alla griglia vista la gradevole nota affumicata. Stopposa e filacciosa, dicevo, che sapeva di pollo, ma senza la fragranza magnifica dei polli cinesi. Un'altra porcheria, ma almeno tutti noi commensali possiamo vantarci di aver mangiato serpente. Volete mettere quanto siamo stati avventurosi?

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