lunedì 21 novembre 2011

DI BACI E NEBBIE

Amo la nebbia, la trovo romantica, avvolgente, confortante. Ho trascorso la maggior parte dei miei anni di formazione in un paese dove le nebbie iniziavano alla fine dell'estate e finivano all'inizio della primavera. La nebbia rappresenta quel che era per Holden Caufield lo stagno delle anatre di Central Park, lui si chiedeva dove andassero le papere d'inverno; ecco, io mi sono sempre chiesta dove sparisse la nebbia d'estate, tanto l'amavo e la vivevo. La nostra casa si trovava in mezzo ai boschi in una piccola cittadina non lontana da Bruxelles. A parte il fatto che il Belgio è talmente piccolo che qualsiasi cittadina si trova "non lontana" dalla capitale. La casa era di mattoni rossi con grandi finestre aperte sui prati e sui boschetti di betulle - forse non ho detto che trovo molto romantiche anche le betulle - nel giardino sul retro c'erano una casetta per gli uccelli e tante piante. A partire dal mese di ottobre la casetta per gli uccelli spariva per giorni interi, ingoiata dalla nebbia soffice, densa e corposa come una meringa con la panna. Non si vedeva nemmeno la prima dalla di pietra del sentiero che conduceva fuori dal giardino, e che partiva dalla porta finestra della sala. Così, accoccolati e protetti dal guscio grigio e umido trascorrevamo le giornate. Giorni e giorni senza vedere il sole, in compagnia solo dell'aria che prendeva consistenza e spessore.  Certo, si andava a scuola, si lavorava, si faceva la spesa, si conduceva una vita normale, insomma, ma tutto ritmato dal silenzio ovattato e irreale di quelle nebbie cotonose che non ho mai più incontrato.
Era una serata autunnale, di quelle serate novembrine fredde e umide, da almeno una settimana le nostre giornate erano cotonose. Dalla mattina alla sera vivevamo immersi in una nebbia talmente fitta che avevamo  addirittura perso l'orientamento in casa. Fuori la temperatura era polare, dentro bollente. I miei genitori erano usciti e io avevo invitato un po' di amici a trascorrere la serata con me. Nel salotto di mia mamma si erano distribuiti una discreta quantità di adolescenti, più o meno brufolosi, di entrambi i sessi, tra cui quello che mi piaceva. Dire che mi piaceva è un eufemismo, davanti a lui il mio cervello si fermava e le mie gambe diventavano di gelatina e il mio stomaco si riempiva di insetti molesti. Sì, credo mi piacesse.
Gli adolescenti erano ovunque: spaparanzati sul divano, sdraiati a terra, seduti in due sulle sedie della cucina, in camera mia, nel bagno, in qualsiasi angolo della casa si poteva trovare un minorenne che chiacchierava e interagiva coi suoi simili.  Sgranocchiavano tutto quello che avevano saccheggiato nella dispensa fornitissima di mia madre: patatine chips, noccioline, pralines di pregio e da supermercato, caramelle morbide e dure, ma soprattutto pop corn - o come mi aveva corretto simpaticamente il maestro d'italiano: il granoturco scoppiato - che la mia amica preparava sul fornello, la metà dei quali finiva direttamente a terra creando un divertente effetto di neve croccante. La cosa più trasgressiva e forte che girava erano le bottigliette di Coca Cola e alcuni succhi di frutta. Qualcuno aveva lasciato una latta aperta di succo d'arancia per terra in cucina, un altro gli aveva tirato un calcio per errore e un po' di succo d'arancia si era sparso tutto intorno. Un bel vedere, pop corn e succo d'arancia sul pavimento bianco. Verso le dieci e mezza sarebbe partita una task forse di pulizia, che avrebbe lustrato dove avevamo sporcato; quella era l'unica condizione posta dalla mia ospitale genitrice. E pur di avere una casa a disposizione tutti ci prestavamo all'operazione lustra e brusca. Lo stereo urlava vari pezzi rock e la vicina non era molto contenta, batteva i pugni alla parete che divideva la nostra casa dalla sua almeno tre volte a serata ogni volta che avevo ospiti, quella sera aveva già esaurito le possibilità: cinque sessioni di pugni e di "Taisez-vous!" gridati a pieni polmoni (per chi non abbia un po' di immaginazione traduco: zitti!) ; nessuno l'aveva nemmeno degnata del solito urlo: "Ta guele!", un modo francofono inelegante e piuttosto maleducato di dire stai zitta, seguito da epiteti più o meno coloriti in due o tre lingue diverse. Dopo queste serate mia madre doveva fare opera di pubbliche relazioni e diplomazia, di solito quando riusciva a risolvere la questione era già arrivato il momento di un'altra seratona.
Era quasi l'ora di far entrare in  azione la task force e qualcuno aveva messo sul piatto un trentatré giri (questo racconto si svolge ai tempi di Carlo Cotica, quando esistevano solo i vinile e le cassette col nastro n.d.r.) di De André. Questo di solito segnalava l'attimo del pensiero e della malinconia, quando ci si doveva separare per andare a posare le ossa a letto, ché il giorno dopo c'era scuola. Era come la canzone che chiude le serate nei villaggi turistici, ma quella di solito è più allegra. Io guardavo sconsolata il pavimento della cucina, sarebbe toccata a me la pulizia del pavimento imbiancato dai pop corn schiacciati, a terra c'erano anche svariate chips rotte in mille pezzi, e le noccioline che Andrea aveva provato a mangiare afferrandole al volo con la bocca. Ero sola, gli altri erano tutti in giro per la casa, guardai il pavimento e, poi, fuori dalla grande finestra sopra il lavello. La nebbia era così fitta che sembrava avesse nevicato in orizzontale sulla finestra, c'era qualcuno riflesso nel vetro. Il cuore perse svariati battiti dopo aver fatto un paio di capriole nel petto. Era lui, quello che mi faceva venire le farfalle nello stomaco. Era fermo sulla porta e mi guardava, non credo fosse consapevole del suo riflesso nel vetro. Sorrideva. Si avvicinò alla padella e afferrò una manciata di pop corn ormai freddi, si sedette sullo sgabello arancione di fronte al tavolo, quello dove io mi sedevo tutte le mattine per fare colazione. Mangiava pop corn e io lo sentivo sgranocchiare dietro alla mia schiena. Ero un po' rigida ed impettita, in piedi in quella cucina. Non so cosa disse, so che mi girai e risposi qualcosa. Per tutta la sera era stato da altre parti, soprattutto dove non ero io. Aveva chicchierato, bevuto, mangiato e cantato, non necessariamente in quest'ordine, ma lontano, ben lontano da me. Io mi ero innervosita, ma in quel momento non riuscivo ad essere arrabbiata con lui. Mi guardava, e sorrideva, mi fece cenno di andare a sedermi sulle sue ginocchia. No, non ci vengo, dovrei avercela con te, non mi hai nemmeno guardata stasera. Mi ritrovai sulle sue ginocchia di sedicenne biondo, senza barba, e per niente brufoloso, in un nano secondo. La volontà è tutto nella vita. Io ero di traverso e vedevo tutto quello che succedeva in sala, gli altri erano lì che ridevano e chiacchieravano, godendosi gli ultimi istanti prima di iniziare a pulire. Io sentivo gli occhi di lui trapassarmi lo zigomo destro, sentivo un gran caldo e quando lui appoggiò la mano sul mio fianco abbracciandomi ebbi un sussulto. Con la mano libera mi girò il viso e posò le sue labbra contro le mie. Milioni di insetti molesti si scatenarono nella mia pancia, mi parve di sentire un ronzio forte nelle orecchie e anche un boato e uno scoppio. Stavo dando il mio primo bacio, non quella roba viscida e molle che ci eravamo scambiati il mio compagno di classe ed io per scommessa, no una roba vera, romantica, al ragazzo di cui, adesso lo so, ero perdutaente innamorta. Mentre mi baciava sospirai, un sospiro lungo intenso. Vorrei dire che il suo bacio sapeva di fragole e panna, di vino rosso e cioccolato, ma purtroppo sapeva più prosaicamente di pop corn. Dalla sala provenivano le note de "La canzone dell'amore perduto", quella che dice "l'amore che strappa i capelli è perduto ormai, non resta che qualche svogliata carezza e un po' di tenerezza". Ecco solo io potevo dare il primo bacio e cominciare una storia d'amore in una notte di nebbia, con una canzone che parla di un amore finito e di  baci mai dati, solo io posso ascoltare questa canzone e sorridere al ricordo del mio primo amore. Forse è per questo che adoro De André, e la nebbia. Per non parlare del pop corn.

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