martedì 29 novembre 2011

DOMENICA PORTEÑA

Era inverno, nel nostro emisfero. Era piena estate nell'emisfero australe, dall'altra parte del mondo. Il volo era stato stancante, dalla Turchia all'Argentina avevamo cambiato aereo una volta sola, ma l'attesa era stata eterna. Eravamo arrivati all'alba di un sabato, la nostra amica che ci aspettava fuori dal controllo passaporti con un cartello di benvenuto ed un sorriso smagliante da tarda mattinata. Era la prima volta che ritornavamo nel paese dove avevamo vissuto per tre anni. La felicità ci riempiva il cuore, vedere i nostri amici ci scaldava l'anima, essere turisti in quella che consideravamo la nostra seconda casa un'allegra alternativa. Faceva caldo, ma non troppo, di solito in quella stagione l'umidità tocca punte da vaporiera e il sole picchia sulla tua testa come un fabbro sull'incudine. In quei giorni un po' di vento da sud aveva rinfrescato l'aria e pulito il cielo. I cieli porteñi sanno essere di un blu accecante, appena solcati da nuvole dense e filacciose come cotone, la luce porteña è limpida, trasparente, vitale. Quello era uno di quei giorni, limpidi e lucidi. Eravamo stanchi, le ossa accartocciate dal viaggio, i muscoli tesi dall'ansia di arrivare. Solo una notte di sonno ci avrebbe riportati al nostro stato normale, ma era mattina e avevamo tanti amici da incontrare. Sarebbe stata una lunga giornata. 
Sarita, la mamma della nostra amica, ci ospitava, con la sua delicata, ma decisa presenza che era una discreta assenza. Stare da lei era come stare a casa dalla mamma, col vantaggio che non ti avrebbe mai imposto orari di visita o pranzo. Una casa magnifica, elegante e sobria nella quale ci aspettava una camera confortevole con un servizio da cinque stelle, migliorato dall'affetto.  Le nostre colazioni di chiacchiere con la padrona di casa erano un momento perfetto per incominciare la giornata. Il più bel bed and breakfast della città sarebbe stato nostro, e solo nostro, per cinque giorni. Purtroppo nessun altro potrà avere il privilegio di soggiornarvi, nessuna guida lo citerà, nessun passaparola vi darà il numero di telefono, la padrona di casa ospita solo noi e pochi altri, di solito familiari in visita. Ci aspettava con la porta aperta con quello che sarebbe stato il secondo di molti abbracci che avremmo ricevuto quel giorno.
Finalmente la notte era arrivata e il cielo ci aveva regalato un notte color dell'inchiostro con uno spicchio di luna crescente e milioni di stelle. Non capisco come mai, nonostante l'inquinamento luminoso, a Buenos Aires si vedono sempre tante stelle, come se il cielo fosse più vicino alla terra. Il giorno dopo ci avrebbe aspettato il pranzo di famiglia. Un pranzo porteño con la nostra famiglia locale, perché eravamo stati adottati non solo da Sarita, ma anche dalla famiglia di altri nostri amici. Ci piace pensare di avere tanti genitori, un po' argentini un po' italiani, di religioni e abitudini diverse. Un pranzo porteño è una cosa seria, per professionisti degli incontri familiari e nessuno di noi è un mai stato un dilettante in questo senso. La notte avrebbe tolto la stanchezza e ci avrebbe preparati all'evento. 
Dopo il sonno ristoratore, una colazione degna di Pantagruele in un momento di appetito, la domenica mattina siamo saltati in macchina e ci siamo diretti nella casa che ci avrebbe ospitato per il pranzo. 
In mezzo al prato splendeva azzurra la piscina, dove già sguazzavano i più piccoli di famiglia, un set di bambini di età variabile tra i quattro e i dieci anni; la nostra colonna sonora era assicurata. Davanti ad una parilla, una griglia in muratura, doppia, si dava da fare il fuochista, da una parte fuoco vivo, dall'altra brace  già perfetta per cucinare. Una parrila doppia non è la normalità, è un 'eccezione per professionisti della griglia familiare. Appunto il nostro caso. Baci, baci, baci, abbracci, abbracci, abbracci, ma ragazzi come vi trovo bene, ma Enrique come sei informa, oddio i bambini come sono cresciuti, vieni qui Sofi ad abbracciare la zia; bacio umido di piscina e affetto. Ci infilano in mano un bicchiere di vino bianco, gli argentini non sono specialisti nel produrre i bianchi, i rossi casomai, ma i bianchi, sono da '"fa niente bevo lo stesso". Sulla parilla, sopra la brace grigio rossastra, sfrigolavano i chorizos, salamini tra la salsiccia e il salame, buoni, buoni, buoni; di lato panini bianchi tagliati a metà si scaldavano prima di essere addentati farciti col salamino grondante grasso. Choripan, così si chiama questo sublime momento che da il via al pranzo, di solito verso l'una. Perché prima è ancora mattina presto in Argentina, ora di fare colazione. Tre bicchieri di vino, tre choripan, una morcilla (sanguinaccio) e un'ora dopo, una campana ha annunciato che era ora di mettersi a tavola. Sui tavoli imbanditi sotto il grande albero sono arrivate le grandi ciotole con quattro tipi di insalata diverse: patate e maionese, grande protagonista della cucina argentina, foglie varie e lo ammetto non mi ricordo più che cosa ci fosse nelle altre ciotole, se non tanta bella roba, anche buona. Sulla parilla c'era ogni ben di dio. Le portate hanno un ordine abbastanza codificato: prima il choripan e la morcilla, poi le insalate, che non sono mai piatti leggerini, poi le carni, che a loro volta hanno un'ordine di precedenza sulla tavola. In questo pranzo familiare sono state rispettate tutte le regole e gli ordini di arrivo. Intanto, tra un choripan e un tuffo, i piccoli non erano paghi e schiamazzavano nel tavolo dei bambini, uguale a quello degli adulti solo di dimensioni ridotte. Gli adulti, già leggermente alterati dall'aperitivo iniziavano a tracannare un bel rosso corposo mentre ingurgitavano la prima portata di carne, quella che prende il nome dalla griglia: la parilla. Vegetariani, e soprattutto vegani, che senz'altro al choripan saranno stati già orripilati, astenersi dal contiunare la lettura. Si tratta delle interiora, di tutte le interiora, tra cui fegato, animelle, rognone, intestini passati sulla griglia e serviti su una griglietta apposta. Il banchetto argentino inizia da qui, nel rispetto della tradizione dei gauchos che uccidevano l'animale e lo mangiavano tutto. Esiste una tradizione, che forse non esiste più, nella Pampa, quando si lavora e si sta fuori per molti giorni, perché le proprietà sono enormi, si prende una delle vacche del pascolo e la si macella. La si fa cuocere aperta, steccata su un fuoco di braci e si mangia ciò di cui si ha bisogno il resto lo si lascia lì, steccato, in attesa di un viandante o qualcuno che deve spostarsi nella Pampa infinita, avrà da mangiare e sarà suo diritto servirsi. Quel pranzo era speciale, era una sorta di ritorno del figliol prodigo che è stato via troppo a lungo, e allora tutte le tradizioni delle farmiglia sono state rispolverate. Subito dopo la parrilla è stato servito il pollo, poi è stata la volta delle costine di maiale, e poi i tagli di carne: asado de tira (costato), lomo (filetto), bife de chorizo (controfiletto, ma non proprio) e c'è da perderci la testa con tutti i tagli che sono passati sotto le nostre mandibole in continuo movimento. Tutto condito e aromatizzato con il chimichurri, la salsa a base di olio, aceto, prezzemolo e aglio (per la ricetta vedi nel blog). Il vino scorreva a fiumi e intanto la luce si faceva più bassa e morbida, le risate degli adulti andavano a mescolarsi agli strilli dei bambini tornati in piscina a sguazzare allegri. Dall'inizio del pranzo di ore ne erano passate quattro ed era arrivato il momento dei dolci, che in Argentina sono veramente dolci. Torte con ripieno di dulce de leche, la marmellata di latte che sa di caramella mou, un vero momento consolatorio nelle giornate tristi; crostate con marmellate di fragola e amarena raccolte dall'albero del giardino, flan (creme caramel), mousse di cioccolato fatta apposta per me, che amo alla follia questo dolce. Il caffè avrebbe chiuso il pranzo. Mentre il sole tramontava, dorato sull'acqua della piscina, noi, l'anello di congiuzione tra i più piccoli e io loro nonni, seduti sulle sdraio ci passavamo il mate, lo ciucciavamo caldo, amaro, aromatico con la bombilla e discutevamo delle vacanze che ci aspettavano. Il mate è una tradizione che rappresenta il paese forse più ancora della carne, persino Ernesto Guevara, il rivoluzionario Che, non ha rinunciato a bere il suo mate durante le battaglie, ci sono molte foto che lo testimoniano. Il mate passava di mano in mano, l'alcol e il cibo, ma per noi soprattutto il fuso orario, ci avevano stroncato e alcuni di noi russavano forte, tanto forte da ridurre al silenzio i più loquaci. Il mate era rimasto a me, avevo riempito di acqua il contenitore (una piccola zucca, di solito) , e aspettavo che l'infuso prendesse sapore con il sole ormai basso sull'orizzonte, le ombre lunghe degli alberi e una sensazione di beatitudine un po' alcolica. 

P.S. non chiedetemi come mai ci siano tre diversi caratteri con tre diverse dimensioni, secondo me il computer si è sbronzato solo a farsi scrivere addosso questo racconto, e con tutto quello che ha mangiato, poi... 

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