martedì 8 novembre 2011

CARTOLINA DA RIO

L'aereo aveva virato leggermente a sinistra, quando all'improvviso si era presentata la baia in tutta la sua interezza. Un magnifico insieme di grandi insenature, incastonate fra colline di pietra scura, contornate da vegetazione di varie tonalità di verde, che finivano in spiagge di sabbia dorata e dentro ad un oceano blu cobalto. Fuori dal finestrino si avvicinavano il Pao de Açucar, Copacabana e Santa Teresa. Un'altra piccola virata e di lato, a pochi centimetri, il Cristo Redentore, che abbraccia la città dal Corcovado, sfiorava l'ala dell'aereo con le sua mani, sotto si intravedeva appena la Lagoa Rodrigo de Freitas, lo specchio d'acqua interno a Ipanema. Io avevo un nodo alla gola, lo stomaco stretto dentro cui danzavano mille farfalle, quasi non riuscivo a respirare. Ero come un'innamorata. Non dimenticherò mai il mio primo atterraggio a Rio, è stato come fare l'amore la prima volta; no, la seconda, la prima è stata un vero disastro. Il mio sogno di bambina si stava avverando, ero nella Cidade Maravilhosa così i Carioca, gli abitanti di Rio, chiamano la loro città. Quante volte avevo sfogliato l'enciclopedia, cercato foto in biblioteca, letto libri, persino studiato la cartina della città trovata a casa di un'amica. Quante volte avevo interrogato amici che ci erano stati, bevendo ogni parola e sognando. E ora ero lì, nella testa la colonna sonora che mi ero specialmente preparata:  Agua de Beber, Aguas de Março, So Danço Samba, Desafiando insomma tutto Antonio Carlos Jobim e, chiaro, non poteva mancare, A Garota de Ipanema nella versione col sax di Stan Getz. Negli occhi il panorama dall'aereo. Insomma era la più ovvia e banale colonna sonora della cartolina della città più fotografata al mondo, più musicata al mondo, più festaiola al mondo, più spogliata al mondo, più carnevalesca al mondo. La prima volta che ho respirato l'aria umida fuori dall'aeroporto mi sono sentita a casa, non una turista, non una viaggiatrice, non una straniera. A casa. Rio è casa mia. La mia dimensione: in costume da bagno tutto l'anno a rimirare le ovvie bellezze sfacciate della città, i morros, le spiagge, il selciato bianco e nero, i cibo, il clima tropicale, la Caipirinha, la gente. Un melting pot incredibile dove tutte le razze si mescolano, rimescolano, uniscono, disuniscono. In certi momenti sono divise come l'acqua e l'olio, in altri sono un tutt'uno. Dove durante il carnevale non esistono classi sociali e tutti si divertono insieme, salvo il giorno dopo riprendere i ruoli designati. Mescolarsi è una cosa facile, perché le favelas crescono insieme ai quartieri più eleganti, a volte non si capisce quale sia il confine tra il quartiere povero e quello ricco, se non fosse per alcuni tetti di lamiera o le finestre senza vetri di alcune case. I morros, le famose colline carioca, sono disseminate di grappoli di case basse colorate, bianche, di semplici mattoni forati, i poveri vivono in collina i ricchi, o quelli che credono di esserlo, sotto, nei grattacieli che si spingono fino alla spiaggia.
A Rio tutto è più rilassato, lento, flemmatico, forse per il caldo, forse per l'umidità, forse per un ricordo dei colonizzatori nullafacenti, ma molto tenetenti. E' ovvio a Rio si lavora, ma ci sono dei vantaggi a vivere in questa città. Puoi sgranchirti le gambe tra una riunione e l'altra passeggiando per un tratto di lungomare a Leblon oppure puoi trascorrere la pausa pranzo guardando l'oceano, o la gente che si diverte, mangiando uno spuntino seduto ad un tavolino del Posto 9, la spiaggia alternativa, dove la varia umanità crea cose fantastiche solo muovendosi. Questo momento potrebbe prendere il nome di studio antropologico se solo uno desiderasse dargli un nome. Una bella differenza da una città senza il mare. Gli abitanti di San Paolo non sono molto d'accordo con questa rilassatezza e fanno girare una feroce battuta: "Sapete perché il Cristo sta a braccia aperte sul Corcovado? Perché aspetta che il primo carioca lavori per applaudire". Rivalità tra città, un po' come Milano-Roma.
La mattina prestissimo il famoso selciato a onde bianche e nere sui lungomare della città è calpestato da migliaia di piedi: gente che corre, gente che cammina veloce, ragazzi che fanno flessioni, ragazze che esercitano i famosi glutei brasiliani, nottambuli con la bottiglia di birra in mano che guardano perplessi una città che a quell'ora è già troppo in movimento per loro. Sono appena le sei del mattino e ferve l'attività, non solo quella fisica. Un posto dove si vive svestiti tutto l'anno non può che avere il culto del corpo. Rio è il regno della chirurgia plastica, seni grossi a bilanciare i sederi perfetti, nasi all'insù su donne scure come la pece, labbra carnose su bionde improbabili, pelli lisce, zigomi perfertti, melanina che si scatena in tutti i colori. Sederi in mostra strizzati dentro ai famosi costumi brasiliani, straccetti che stanno in una mano chiusa a pugno anche se imbottiti. Sederi fuori, seni dentro, non troppo però, i  reggiseni coprono appena i capezzoli, ma il topless, e chi l'avrebbe mai detto, è proibitissimo, signore che lo hanno praticato hanno provato la gioia di una notte nelle patrie galere. Posti non tutt'altro che belli da queste parti.
La sera del mio arrivo, un'ora dopo l'atterraggio, sono voluta andare in Rua Vinicius de Moraes. Mentre ci andavo ho visto il mio primo borseggio brasiliano, in realtà il primo borseggio della mia vita. Un signore basso e un po' sovrappeso stava fermo ad un angolo della strada, un giovane mulatto piuttosto carino aveva colto la mia attenzione, il ragazzo mi è passato vicino senza neanche degnarmi di uno sguardo, puntava all'uomo sovrappeso, gli ha dato una spallata e gli ha sfilato il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni  Ci ho messo di più io a scrivere "tasca posteriore dei pantaloni" di quanto non ci abbia messo il ragazzo a borseggiare l'uomo. Ladro, ma molto carino e in fondo ci sono rimasta un po' male di non aver fatto colpo sventando così un crimine. Dopo l'imperdibile esperienza sono arrivata al bar Garota de Ipanema a bere una Caipirinha. In quel bar, forse sarebbe meglio dire nel bar che precedeva quello, Jobim e Vinicius (a cui hanno dedicato la via) hanno scritto la famosa canzone sulla "ragazza dal corpo dorato dal sole di Ipanema". La canzone rimane bellissima, il posto una delusione turistica terribile: caipirinha annacquata e cara, l'atmosfera uguale alla versione cartonata di un oggetto reale, deprimente, e deprimersi a Rio non è proprio facile. Molto meglio, molto più brasiliano, il Suco de Manga (succo di mango) bevuto per cena e in piedi al bancone di uno dei tanti posti dove spemono ogni tipo di frutta.
All'epoca non lo sapevo che avrei vissuto in Brasile e che quel viaggio a Rio sarebbe stato il primo di molti, cercavo di bere la città, di staccarla morsi, inghiottendola il più velocemente possibile, volevo assorbine le atmosfere, cogliere ogni sfumatura. Impossibile, sermbra una città facile e disponibile, in realtà va scoperta poco a poco. Senza fretta. Solo andando molte volte si scoprono angoli sconosciuti e magnifici, come un la casa di un artista che lavora materiali di recupero.
Pochi minuti dopo il borseggio, ho avuto il piacere di sentire alcuni spari nella luce del crepuscolo, provenivano dalla favela. Chissà cos'era stato, probabilmente uno dei tanti casi che avrebbero meritato dieci righe sul giornale il giorno dopo. Quella sera stessa mentre guardavo la gente che correva sul lungomare (non lo fanno solo la mattina) grosse gocce hanno colpito l'asfalto ancora caldo provocando una leggera nebbiolina. Una pioggia tropicale, calda che ti infradicia completamente ma che di solito dura poco. Una corsa in albergo e non sono più uscita. Guardavo il mondo dalla finestra chiusa, come in un acquario un muro d'acqua era fra me e le palme,  fra me e la gente. Gocce grosse come meloni si frapponevano alla vista dell'oceano e rendevano lucido il granito bianco e nero del selciato. Un granito che parla di schiavitù perché arrivava con le navi negriere quando erano vuote del carico umano. Quella pioggia è durata per tutta la notte e la mattina dopo si contavano i danni di un'alluvione da manuale, cosa non rara da queste parti.
Quel primo giorno ho vissuto tutte le emozioni vivibili in Brasile, dalle più belle alle più brutte.
Il giorno dopo in cielo ancora qualche nuvola rompeva l'azzurro, i detriti invadevano la città, ma il sole splendeva, sul lungomare tutti camminavano o correvano, alti, magri, bassi, grassi, belli,brutti. Sulla spiaggia giocavano ragazzi dai fisici mozzafiato, tiravano calci ad un pallone e magari fra di loro c'era un ragazzino che da grande sarebbe diventato un famoso giocatore. Le reti da pallavolo erano affollate e di li a qualche anno il beach volley avrebbe spopolato in tutto il mondo. Venditori di cappelli, biscotti, birre, parei, pannocchie bollite solcavano la spiaggia davanti alle sdraiette e agli asciugamani. Io ho fatto due passi lungo la spiaggia e mi sono comprata una T-shirt, la scritta diceva in grande "I left my heart in Rio" in piccolo "And my wallet, my camera...". Ho lasicato il mio cuore a Rio, e il mio portafoglio, la mia macchina fotografica....

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