lunedì 19 dicembre 2011

UN NATALE INDIANO

La cucina professionale era piena del cicaleccio di donne indaffarate a preparare un pranzo di Natale, i cuochi guardavano e davano una mano cercando di carpire si segreti delle massaie. Le signore impastavano, lavoravano il burro a crema, stendevano la pasta, preparavano il ripieno, tagliavano verdure, lardellavano la carne. Il menù era ambizioso, trecce di pasta sfoglia ai semi di sesamo, zuccotto al prosciutto e spinaci, tortellini panna e funghi, arrosto di manzo alle verdure, contorni vari, Pandoro e Panettone con crema al limone. Non esistevano le pentole d’acciaio e la crema al limone cotta dentro la casseruola di alluminio, prima di essere vagamente tossica, aveva assunto una sfumatura pressappoco grigia. I tortellini erano venuti un po’ grandi rispetto alla dimensione standard “grandi come l’ombelico di una donna“, richiesta dalla tradizione modenese, ma le massaie avevano fatto quello che potevano. Lo zuccotto grosso come un pallone da calcio non era venuto male, ma lavorare la quantità di burro necessaria per quaranta persone aveva sfiancato l’autrice, che giaceva sfinita sulla sedia della mensa. Un Natale tutto italiano, aggiustato con gli ingredienti e gli accessori da cucina improvvisati, quel pranzo era stato cucinato per quaranta italiani, svariati indiani e qualche straniero, isolati in cima alla montagna, al lavoro, persi alle pendici dell’Himalaya. Tutti felici come bambini avevano ingurgitato quantità di cibo epiche, quelle italiane preparate dalle cuoche improvvisate e quelle indiane preparate dai cuochi, indiani. La crema al limone grigina era andata a ruba, si era tenuta nascosta la sua tossicità dovuta al connubio alluminio-cibo acido (limone), i tortellini avevano spopolato, non era avanzato nulla. (...) 
(...) La globalizzazione ormai si insinua quasi ovunque, anche in questo paese dove per anni la Coca Cola non ha trovato posto e ci si doveva accontentare del terribile, ma simpatico, surrogato, la Campa Cola. Adesso nei centri commerciali più alla moda si aggirano Babbo Natale vestiti di tutto punto con le loro casacche rosse bordate di simil pelliccia, i lori pantaloni larghi e gli stivali, saune ambulanti dato che nei giorni freschi nel sud del paese ci sono almeno ventisei gradi. A quelli del nord va meglio, ci sono giorni di dicembre a Delhi nei quali la temperatura si abbassa fino a sedici gradi, dando un po’ di refrigerio ai poveri Babbo Natale. Sono giorni, però, nei quali lo smog si comprime verso terra, tanto da sembrare una fitta nebbia, e passeggiare per le vie della città diventa un incubo corredato di lacrime e tosse. Per questo gli indiani amano molto i centri commerciali. (...) 
(...) Parlare di cucina indiana non è un’impresa semplice. Le religioni con le loro restrizioni sono le protagoniste della gastronomia, come anche le varie tradizioni locali: regioni nelle quali si pesca, regioni dove si caccia, regioni rurali ad alto tasso di povertà, luoghi lacustri o fluviali. Ognuno di questi elementi modifica i piatti e le tradizioni costruendo le basi per una gastronomia mai noiosa e mai uguale a sé stessa. Per esempio a Goa, ex colonia portoghese, dove il cattolicesimo è la religione dominante si mangiano il maiale e le sue interiora, una tradizione che più portoghese non si può. I piatti più comuni sono il Vindaloo a base di carne di maiale o il Sorpotel con carne e fegato di maiale. Un piatto che farebbe inorridire un abitante di Delhi, dove si trovano molti musulmani, come del resto in gran parte dell’India del nord, che senz’altro preferirebbero un bel piatto di Sikandhari Raan, succulento, tenerissimo cosciotto d’agnello cotto per ore in un forno a legna. (..) 


Estratto dal mio libro "Il Natale è Servito" - Ed. La Linea, Bologna 
 

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